Metodologia dell’educazione immaginativa

di Enrico Ceppi (fasc. 1, anno 2013)

[Tratto da: Luce con luce. Rivista trimestrale dell’Istituto Statale “Augusto Romagnoli” di specializzazione per gli educatori dei minorati della vista, a. 7 (1963), n. 2, 140-168. Si tratta della relazione al primo Corso residenziale di aggiornamento per gli insegnanti delle Scuole Elementari per i ciechi, Rocca di Papa (RM), 22-31 marzo 1963.]

Metodi e mezzi per lo sviluppo dell’immaginazione nei bambini della Scuola materna

Il tema che ci siamo proposti di svolgere è indubbiamente quanto mai suggestivo e ricco di molteplici prospettazioni, giacché in esso noi potremmo agevolmente far rientrare l’intera problematica concernente l’educazione del bambino cieco.

Invero se noi consideriamo la cecità non solo come un fattore di debilitazione della attività pratica dell’uomo, riducendo essa le sue effettive possibilità di adattamento alle normali forme di vita e rendendo a volte impossibile uno spontaneo inserimento nelle manifestazioni sociali fondate sull’affermazione della personalità autonoma, ma anche come elemento di debilitazione psicologica dell’individuo, concorrendo ad arrestare il normale processo evolutivo, potremmo ritenere che tale concorso negativo nell’alterazione psicologica sia soprattutto relativo a una progressiva mortificazione dell’attività immaginativa, conseguente alla naturale povertà percettiva.

Le manifestazioni di involuzioni nello sviluppo motorio del bambino non vedente, di alterazione dei suoi atteggiamenti affettivi, di ripiegamento del suo mondo istitutivo e tendenziale verso forme sempre più spontanee, possono essere ricondotte a questa prima e fondamentale conseguenza definibile come povertà immaginativa, incapacità a cogliere un insieme percettivo utile, da strutturare in forme e in schemi validi per la stimolazione di un normale processo di crescita biopsicologica.

Senza ricorrere qui a una ricapitolazione delle tappe evolutive percorse dal bambino, possiamo tuttavia ricordare brevemente come sia indispensabile alla normale evoluzione un contatto efficace e costante con l’ambiente, sia esso nelle forme motorie o sia piuttosto nella forma più complessa della percezione.

Il bambino ha la possibilità di raggiungere determinate mete nella sua evoluzione anche se abbandonato a se stesso, anche se guidato soltanto dal proprio istinto e dalla natura: occorre però che sia in possesso dell’assoluta normalità biologica e quindi di un equilibrio fisiopsichico così come è previsto dalla natura stessa.

L’educazione può volgere la crescita verso forme sempre più adeguate di attività sociale, può decisamente intervenire nel promuovere l’affermazione dei fini superiori dell’esistenza, ma il ritmo individuale di crescita viene spontaneamente raggiunto dal bambino stesso sotto la spinta dei propri bisogni naturali e delle proprie tendenze psicologiche.

Assistiamo ad un continuo e costante sforzo di adattamento alla vita e al mondo esterno: adattamento che si svolge prevalentemente in due direzioni e cioè nel plasmare il proprio comportamento sulla realtà del mondo circostante e nel conformare la situazione esterna ai propri bisogni naturali e alle più elementari esigenze della vita.

In questo senso si è svolto il cammino dell’intera civiltà umana, sempre protesa in una costante dinamica ad adattare l’uomo all’ambiente e, in uno sforzo di superamento, l’ambiente all’uomo.

L’immane sforzo dell’umanità di conquistare una modalità di vita superiore, di dominare la natura, si è espresso anzitutto come attività creativa e quindi come realizzazione di un prodotto prima ancora che del pensiero, dell’immaginazione.

L’individuo ricapitola in sé dalla nascita alla maturità, il lungo cammino dell’uomo e l’evoluzione della storia, celebra in altre forme e nell’ambito della propria azione individuale il processo di evoluzione che anzitutto è volto alla conquista di una sempre più ampia autonomia nell’attività pratica e di una sempre più completa libertà nella attività spirituale.

Le precedenti considerazioni, richiamate soltanto con valore introduttivo e non per affermare in modo completo princìpi generali, giacché una trattazione di princìpi ci spingerebbe assai lontano dal tema prescelto, indicano il ruolo svolto dall’immaginazione nell’attività psicologica e spirituale dell’individuo e come da essa scaturiscano non solo le forme più valide della nostra esistenza, ma i contenuti più chiari per la elaborazione intellettiva.

La minorazione della vista scindendo in gran parte il non vedente dal mondo circostante, togliendogli la possibilità di una ricca percezione di forme, di dimensioni e di colori, isolandolo per così dire dai consueti modi di adattamento dell’uomo al mondo esterno, arresta anzitutto il processo formativo dell’immaginazione: e se immagini si formano esse sono estremamente labili, evanescenti, spesso prive di spazialità, determinanti in modo prevalente un contenuto meccanico e mnemonico invece di quello creativo e costruttivo più tipicamente idoneo a sviluppare il pensiero.

L’immaginazione povera non induce spontaneamente il fanciullo ad esplorare il mondo che lo circonda, non suscita una sana curiosità di conoscere e se, naturalmente, il fanciullo non vedente è portato all’acquisizione di nuove nozioni, esse vengono raggiunte in modo generalizzato nella loro nominalistica assunzione, prive cioè di un contenuto immaginativo vero e proprio.

L’immaginazione indubbiamente costituisce una facoltà psicologica propria della natura umana e quindi non può ritenersi legata a fatti esterni esclusivamente fondati sulla esperienza del soggetto: ma se ciò è vero, e noi riteniamo che lo sia, è altrettanto vero che la facoltà in sé e per sé senza un costante materiale di elaborazione finisce per essere una pura forma psicologica, inutile alla generale economia della vita e del pensiero.

Noi non neghiamo al non vedente la facoltà dell’immaginazione, noi non contestiamo la possibilità che egli possa immaginare e quindi strutturare delle immagini, noi affermiamo soltanto che il non vedente, naturalmente, è portato a rifuggire per scarsità di interesse e di stimoli da un’attività immaginativa ampia e aderente alla realtà del mondo esterno.

L’attività immaginativa del non vedente pur affermandosi in forza di una normalità psicologica, si limita ad elaborazioni generiche e astratte a riprodurre con costanza e monotonia la fondamentale e statica immagine derivante da una percettività globale dell’essere posto a contatto con l’ambiente esterno.

Il primo atto sincretico della percezione che si traduce nella coscienza che l’uomo ha di sé nell’ambiente, atto generico confuso, primitivo, non può dar luogo ad una evoluzione costruttiva di immagini senza l’intervento di una distinzione tra forme e forme che si eleva progressivamente dall’aspetto sensoriale per raggiungere i valori del pensiero e dell’attività morale.

Il bambino che non vede ha la coscienza di sé nell’ambiente, sa di esistere, di occupare un determinato posto nello spazio, coglie confusamente alcune relazioni propriocettive, svolge cioè nella sua coscienza un’attività immaginativa, tuttavia non riesce a strutturare secondo una linea di sviluppo normale in modo positivo, la propria conoscenza del mondo esterno.

Egli sa di essere, di occupare un determinato posto, ha la coscienza della variazione dell’ambiente intorno a sé, ma a tale coscienza non giunge in base ad immagini differenziate, a comparazioni tra strutture percettive diverse, bensì soltanto in forza di una confusa consapevolezza di un mutamento di situazione.

Sarebbe assurdo e contraddicono con la realtà ritenere che il bambino non vedente passi indifferente da un ambiente all’altro, da una situazione all’altra, che per lui non abbiano significato gli aggettivi e gli avverbi grande e piccolo, vicino e lontano, prima e dopo.

Il rapporto sostanziale che proporziona il mondo interiore con la realtà esterna si struttura anche nel fanciullo cieco e il proporzionamento è tale da far supporre che esiste un dinamismo psicologico normale, tuttavia tale proporzionamento deve essere direttamente rapportato alla situazione biologica e sensoriale indiscutibilmente anormale.

La consapevolezza delle fondamentali relazioni spaziali si costituisce nel bambino minorato della vista in conseguenza della sua normalità psicologica e in forza di operazioni prima percettive poi immaginative spontaneamente compiute non solo sotto la spinta dell’istinto, ma soprattutto per opera del dinamismo umano prevalentemente spirituale, che costantemente tende a superare gli ostacoli e i vincoli della materia.

La lotta del bambino minorato della vista per sopravvivere con pieno significato accanto agli altri, per adattarsi pure in situazioni di estrema difficoltà alle condizioni di vita di tutti, assume spesso aspetti veramente drammatici e può, a buon diritto, definirsi come una delle più valide testimonianze del processo di liberazione celebrato dallo spirito nei confronti delle difficoltà della natura.

Il bambino inizia per proprio conto la sua lotta di liberazione; non si adagia, non si prostra come un vinto prima della battaglia, senza aver prima tentato le sue vie: l’educazione può quindi contare sulla collaborazione del bambino non vedente, anche se le apparenze stanno spesso a dimostrare una passività preoccupante e una riluttanza spesso accanita, a porsi sulla via di una normale evoluzione psicologica.

Il bambino lotta per suo conto per conquistare quella parte di nozioni su cui fondare la sua relazione col mondo esterno: lotta contro le cose che gli appaiono troppo grandi e spesso inaccessibili, delle quali deve accontentarsi di particolari spesso insignificanti ed esigui; lotta contro gli adulti che lo circondano, che lo fasciano di pietà e amore e che vorrebbero inibirgli anche quel poco di contatto con la realtà che la sua situazione fisica pur gli consentirebbe.

In queste circostanze, nonostante premano dentro al bambino non vedente violente spinte per l’affermazione della sua autonomia e la celebrazione della sua libertà, nonostante egli sia proteso con la forza di un mondo psichico potenzialmente idoneo a ogni elaborazione conoscitiva e volitiva, il ripiegamento diviene un fatto ineluttabile e si manifesta nei modi e nelle forme più gravi.

Tuttavia, pur nella necessità di ripiegare su se stesso, il bambino che non vede non rinuncia mai ad elaborare schemi di vita, a perseguire, battendo sentieri tortuosi poiché sono sbarrati gli accessi alle grandi vie, i superiori fini dell’esistenza e quindi il ripiegamento può significare allontanamento dalle comuni forme sociali di vita, difficoltà nell’adeguare il proprio ritmo con quello degli altri, con tutte le conseguenze nel campo pratico e in quello affettivo, ma non significherà mai abbandono degli schemi fondamentali dell’esistenza, caratteristici di energie psichiche oppresse, ma non compromesse.

Ciò spiega in gran parte come sia stato possibile il sorgere dal buio di scuole e di istituti vincolati a un insegnamento pietistico e sommario, di esistenze luminose che hanno saputo gettare le basi della nuova educazione dei ciechi, affermarsi nel campo dell’arte e delle lettere, creare metodi educativi fondati su profondi princìpi di vita e di pensiero.

Se l’istinto e i bisogni che ne derivano costituiscono spontaneamente un utile ritmo per la vita biologica, se lo spirito trova le proprie strade pur nell’intrico della minorazione, ciò non vuol dire che all’educazione non sia riservato un compito determinante ai fini del raggiungimento di una autonomia adeguata alle innumerevoli esigenze della vita sociale e del progresso individuale.

L’educazione interviene non solo per sorreggere il bambino che non vede nel suo sforzo di acquisizione e di evoluzione, ma soprattutto interviene promuovendo occasioni e situazioni particolari, perché si ristabilisca il dialogo con il mondo esterno, perché il mondo esterno assuma il significato che gli compete nella formazione del patrimonio conoscitivo, nella strutturazione della vita affettiva.

Le immagini hanno nel processo educativo, quindi, un posto di assoluta preminenza, poiché soltanto una mente dotata in modo eccelso dalla Provvidenza saprà elaborare schemi utili di pensiero fondandosi sulle immagini naturalmente acquisite senza la vista e senza l’aiuto di una educazione riparatrice: né si può pretendere che tali circostanze eccezionali si verifichino ogni qualvolta ci si trovi di fronte a un individuo privo della vista.

L’esperienza pedagogica e le ricerche psicologiche hanno dimostrato come anche nei non vedenti sussista una distribuzione nei confronti dei valori intellettivi, analoga a quella esistente tra gli individui dotati di una assoluta normalità sensoriale; pertanto l’educazione deve fondare i propri metodi non sulle punte dei valori considerati eccezionali, ma sulla media che riassume in sé la quasi totalità dei casi.

Le considerazioni che abbiamo desiderato premettere a quello che può ritenersi il tema principale della nostra trattazione, valgono a chiarire la posizione dell’educatore nei confronti dell’educando non vedente, al livello della scuola materna: cioè proprio nel momento in cui si inizia la fase più delicata dell’intervento educativo, quando appare difficile poter scorgere nel piccolo cieco i presupposti per una evoluzione normale della sua psichicità e per il costituirsi in lui di una personalità completa e significativa ai fini della vita sociale.

Già altre volte osservammo come alcune caratteristiche del bambino non vedente in età prescolare pongano l’educatore seriamente nella perplessità di scegliere il proprio atteggiamento nei confronti del piccolo educando: è lecito considerare quel bambino, che poco o nulla conosce del mondo esterno, che si muove con estrema difficoltà non adeguando il proprio movimento ai fini dell’azione, spesso ripiegato su se stesso per un eccessivo peso di pietà e di protezione, una entità educativa normale? Come scorgere in lui le premesse dell’uomo che dovrà inserirsi nella vita produttiva con pensieri ed azioni adeguati alle esigenze di tutti?

Il nostro bambino si muove a fatica, spesso non accetta il movimento se non in quelle forme indispensabili per il soddisfacimento dei propri bisogni, si limita ad osservare le cose e gli oggetti del mondo circostante soltanto ai fini del loro riconoscimento, diretto sempre a nutrire un generico stato di curiosità più che un bisogno di reale conoscenza.

Da queste constatazioni di fatto deve partire l’educatore per stimolare nel fanciullo l’ampliarsi in cerchi concentrici e crescenti di quella spirale psicologica in cui può essere simbolizzato il suo processo di autonomia e di conoscenza.

Lo stadio precedente contiene sempre le premesse per l’evoluzione successiva, ma appare assolutamente necessario poter partire da uno stadio primario, da una voluta fondamentale, tanto per mantenerci nell’immagine della spirale, offerta direttamente dalla natura.

La scuola materna non dovrà quindi demolire nel fanciullo tutto quanto è stato costituito nei primissimi anni di vita, dallo spontaneo rapporto con l’ambiente, anche se tale esperienza potrà apparire alla luce di una metodologia educativa, errata o male impostata.

L’esperienza personale del bambino, anche se povera, anche se frammentaria e ricca di forme negative, ha pur sempre un valore insostituibile per l’inizio dell’attività educativa scolastica: costituisce l’humus in cui il seme gettato dall’educatore può germogliare e da cui la pianticella può trarre alimento per la sua crescita.

Il primo intervento educativo sarà quindi diretto alla constatazione dell’esperienza acquisita dal bambino nei primissimi anni di vita; mirerà prevalentemente a scoprire non solo gli aspetti concreti e acquisiti di essa, ma le situazioni e le modalità in cui si è compiuta.

Tale azione potrebbe essere racchiusa efficacemente in due formule problematiche: che cosa conosce quel determinato bambino non vedente del mondo circostante? E inoltre quale interesse ha per il mondo che lo circonda? Dal secondo quesito potrebbe derivare il primo, poiché sarebbe lecito ritenere che l’interesse generi la conoscenza o per lo meno l’acquisizione di un patrimonio immaginativo; la distinzione tuttavia va conservata nell’ordine e nel senso stabiliti, perché non è sempre detto che lo svolgimento proceda linearmente dall’interesse alla conoscenza, costituendosi spesso (e soprattutto nei bambini che non vedono) una inversione di situazione e cioè la conoscenza stimola l’interesse, non essendo accettabile nel nostro caso la riduzione del processo educativo alla sola categoria universale dell’interesse.

Infatti essendo poveri gli stimoli direttamente provenienti dall’esterno e non trovando spesso soddisfazione l’interiore anelito dello spirito verso la conoscenza, l’interesse fondamentale dell’individuo, che in definitiva è quello per la realtà che lo circonda, si affievolisce e si spegne, non giungendo il bambino a cogliere la suggestione del nuovo che si schiude incessantemente a ogni esperienza, con una progressione e con un ritmo che hanno un immenso fascino sulla mente infantile.

Se volessimo definire il primo periodo dell’educazione del bambino non vedente, il momento cioè in cui viene accolto nella scuola intesa questa come ambiente predisposto e differenziato, dovremmo indicarlo come il momento del ridestarsi degli interessi nel loro dinamismo psichico e biologico e nel loro significato spirituale.

Il bambino non vedente era abituato ad ascoltare le mille voci proprovenienti dai diversi ambienti che lo circondavano: nell’angolo remoto della sua casa si era creato un mondo acustico a lui familiare e al quale aveva imparato a dare significati precisi ai fini di un embrionale rapporto con le persone che lo circondavano.

Nell’angolo remoto della casa riconosceva tutto e tutti i rumori e i suoni, le voci e gli ambienti, tuttavia non sentiva in sé il desiderio di muovere verso quelle cose, di fissare un dinamismo d’immaginazione, di passare dal momento della ricezione a quello dell’azione.

L’ambiente scuola invece si pone subito come ambiente differenziato e idoneo a suscitare una successione di stimoli selezionati, tali da agire sul bambino che non vede con una progressione costante e duratura.

La prima fondamentale caratteristica dell’ambiente scolastico è infatti costituita dall’azione immediata che esso può esercitare sul bambino, tanto da stabilire immediatamente un dialogo diretto con lui, suscitando in lui spontaneamente il desiderio e l’interesse per la conoscenza di ciò che lo circonda.

Tra l’interesse e l’azione prima e il pensiero e l’azione poi, si inserisce sempre più spontaneamente il movimento: così che l’educazione immaginativa si pone come stimolo e si costituisce in condizione per l’affermarsi di una educazione motoria.

Il bambino esplora il mondo che lo circonda; tocca gli oggetti, le cose, stabilisce spontaneamente delle relazioni e avverte in modo sempre più consistente il bisogno di popolare con immagini reali lo spazio da cui si sente circondato.

Il metodo interviene proprio in questo momento; fa sì che l’esplorazione della realtà avvenga con ordine, suggerisce al bambino il procedimento e soprattutto gli istilla il desiderio di fare.

L’aula in cui si svolge la vita scolastica a questa età deve essere ricca di stimoli provenienti dalle cose che la costituiscono, senza con ciò opprimere con un rinfuso accostamento di mobili e di oggetti insignificanti per il bambino, il nascente desiderio di conoscere.

I piccoli oggetti debbono essere a portata di mano ed offrirsi quasi senza schemi premeditati al piccolo educando: in tal modo ogni suo gesto, ogni suo atteggiamento si proporzionerà alla realtà che lo circonda.

A questo punto appare necessario parlare apertamente del materiale di sviluppo che tanta importanza ha assunto in questi ultimi tempi nelle scuole materne: occorre però parlarne prendendo direttamente il discorso da quanto abbiamo precedentemente osservato sulla natura dell’atto educativo e sulle modalità della sua applicazione presso i bambini che non vedono.

Non potremo infatti conciliare la esigenza del nostro educando diretta a una stimolazione degli interessi per il mondo circostante con l’azione immediata diretta e spontanea di un materiale di sviluppo verso il quale il bambino si diriga con una propria scelta e in forza di una strutturazione sensoriale degli interessi.

Il materiale di cui abbiamo precedentemente parlato non può definirsi come materiale di sviluppo per la educazione sensoriale scientificamente selezionato e pedagogicamente predisposto intorno al bambino; il nostro materiale è soltanto occasionale ed ambientale, poiché prima di educare il bambino alla scelta, prima di affidarlo all’affinamento delle sensazioni e allo sviluppo delle percezioni secondo una gradualità rigorosa, è necessario costituire in lui le immagini spaziali che potremo considerare di base; è necessario sviluppare la conoscenza mediante l’osservazione ordinata di quella realtà che più direttamente viene a contatto con le sue esigenze e i suoi bisogni vitali.

Il bambino conosce la sua seggiolina, il suo tavolino, il letto in cui dorme, le posate e il piatto, ma ancora non se ne rappresenta la forma: li riconosce soltanto per l’uso che ne fa e per il soddisfacimento dei bisogni naturali di riposo o di nutrimento.

Non ha mai avuto l’occasione, se non sporadica, di avere di questi semplici oggetti una percezione sincretica e immediata: perciò conoscerà della seggiolina il sedile su cui si siede e la spalliera su cui poggia le manine, senza che tra i due elementi sappia costituire una relazione per giungere alla ricostruzione immaginativa dell’oggetto.

Il materiale di sviluppo per il nostro bambino sarà quindi anzitutto costituito dagli oggetti familiari della sua vita quotidiana e lo sviluppo sarà nella direzione di una ricostruzione immaginativa degli oggetti stessi.

Quando avremo la certezza che parlando del proprio tavolino il bambino spontaneamente ne richiamerà l’immagine corrispondente, quando osservandolo nel giuoco ci accorgeremo che manipolando dei mattoncini ne sovrappone uno grande a due piccoli affermando di aver costruito un tavolino, allora e soltanto allora avremo la certezza che la sua immaginazione ha ripreso nel senso e nella direzione della normalità il proprio funzionamento e soltanto allora potremo parlare di materiale di sviluppo.

Sarà un materiale prevalentemente fondato sulle caratteristiche tattili degli oggetti, sarà un materiale in grado di suscitare un interesse reale ed effettivo per ciò che avviene intorno al bambino.

Le variazioni del materiale stesso potranno presentarsi in una studiata graduazione di difficoltà e in una selezione specifica di compiti: ma sempre si dovrà tenere conto del contenuto immaginativo di esso. Invero, prima di abituare il bambino a disporre una serie di sfere in ordine di grandezza, ad introdurre figure nei propri incastri impegnandolo nel riconoscimento e nel confronto delle forme, dovremo accertarci che quelle sfere e quelle figure rientrano nella sua possibilità immaginativa, cioè sono acquisite direttamente come percezioni sincretiche e totalitarie, che hanno il loro corrispondente nel patrimonio immaginativo.

In tal modo noi ci accorgeremo che, mentre il bambino ricerca l’incastro per la figurina, non procede per tentativi e non apprende per errori, ma compara intelligentemente le forme attualmente osservate con una forma immaginativa ben presente ed attiva.

Quante volte i bambini che non vedono apprendono per puro addestramento, affidando la loro acquisizione soltanto a una memoria meccanica: sanno ad esempio che la figurina «A» corrisponde al terzo incastro e la inseriscono con esattezza senza per altro che sia la forma della figurina sia quella dell’incastro abbiano suscitato una immagine precisa.

Se dopo il lungo esercizio si prova a scambiare il posto agli incastri, ci si accorgerà immediatamente che il bambino deve ricominciare da principio a tentare, a sbagliare; senza che l’esperienza fatta abbia lasciato in lui un utile apprendimento.

Quando invece all’oggetto corrisponde l’immagine e quando ciò avviene in modo sempre più spontaneo, anche la variazione dell’esercizio preso ad esempio non determina confusioni o arresti; il bambino procede con sicurezza aiutato non dalla memoria meccanica, bensì dalla propria immaginazione.

A questo punto la scuola materna può ritenere di aver assolto il proprio compito, avendo posto il bambino a diretto contatto con l’ambiente che lo circonda, avendogli insegnato a muoversi in esso e a ricostruirlo ogni qualvolta ne senta il bisogno.

Evoluzione delle immagini acustiche

Lo scroscio sonoro di una fontana in una piazza deserta, lo stormire delle fronde nel bosco, il maestoso suono dell’organo sotto le volte di una solenne cattedrale, costituiscono immagini acustiche di grande potenza che si stabilizzano nel nostro ricordo e nella nostra coscienza con un valore spesso determinante nel corso dei nostri stessi sentimenti.

Immagini acustiche, abbiamo detto: immagini cioè prevalentemente formate da suoni o dalla combinazione dei suoni, per le quali tuttavia non è possibile parlare di una pura acusticità strutturata in una forma della nostra immaginazione.

A comporre le immagini che si impongono al nostro pensiero e alla nostra emozione con tanta vivacità e con tanta tenacia, concorrono un insieme di percezioni, di esperienze immaginative recenti e remote, di acquisizioni concettuali e di ricordi affettivi.

L’immagine sonora costituita da uno scroscio di una grande fontana in una piazza solitaria che accompagni il nostro ricordo per molti anni, facendoci rivivere in una plastica rievocazione quel determinato momento di solitudine e di malinconia, di raccoglimento o di attesa, quell’immagine sonora che caratterizza un attimo della nostra esistenza proiettandone per così dire la misteriosa presenza su avvenimenti e fatti, su immagini e sentimenti, prende spicco da una serie di altre immagini che si stringono intorno ad essa e costituisce uno sfondo indispensabile al valore emotivo della immagine.

L’emozione e il ricordo fissano l’immagine così come essa si presenta, senza scendere ad analisi degli elementi percettivi che vi concorrono, senza indugiare nella ricerca di quegli aspetti che abbiano potuto determinare il prevalere di uno piuttosto che di un altro degli elementi percettivi.

L’immagine acustica non si presenta mai isolata, nel suo momento percettivo: l’uomo vive in una percettività totale e globale dalla quale emergono ora una percezione ora l’altra, ora si impongono gli aspetti visivi della realtà ora balzano alla nostra coscienza gli elementi uditivi.

Il prevalere di una percezione piuttosto che di un’altra non annulla il potere di quelle non elevate a figura di primo piano; ciò che avviene per la percezione si verifica con analogo dinamismo per le immagini, giacché l’immaginazione non è uno statico deposito di percezioni da cui meccanicamente si evidenzino, secondo una necessità fissa e immutabile, i ricordi e le strutture delle percezioni, ma è strettamente connessa col dinamismo dello spirito che crea e modifica, che colora col proprio stato attuali immagini e ricordi del passato.

Di uno stesso fatto o di un medesimo oggetto possiamo avere percezioni diverse a seconda del momento in cui noi li cogliamo, a seconda della realtà in cui si strutturano, a seconda dello stato d’animo e dello atteggiamento razionale con cui ci poniamo ad osservarli.

L’immagine per sua natura dovrebbe essere unica ed unitaria, poiché di quel determinato oggetto noi possiamo aver soltanto quella determinata immagine, tuttavia il valore che l’immagine assume nel contesto dei nostri pensieri e delle nostre emozioni varia da situazione a situazione; senza considerare il fatto che essa si modifica insensibilmente sotto la spinta delle esperienze successive e per l’elaborazione intellettiva che viene compiuta col progredire della nostra conoscenza.

Torniamo, dopo questa breve digressione intesa a chiarire il valore umano delle immagini, a considerare lo strutturarsi dell’immagine acustica e aggiungiamo subito che, oltre a quanto precedentemente affermato relativamente all’inscindibilità di essa da un contesto immaginativo, possiamo stabilire un altro carattere peculiare, strettamente connesso con il precedente fenomeno di inscindibilità e cioè la mancanza di spazialità.

Le immagini acustiche, prese nella loro purezza, non potrebbero strutturarsi con elementi spaziali e quanto di spaziale in esse pur possiamo riscontrare è direttamente derivato da percezioni che si accompagnano a quelle acustiche quali le percezioni visive, le reazioni motorie, cinestetiche, tattili, ecc.

Il fatto che parlando di suoni noi si possa affermarne alcune definizioni tratte dalle relazioni spaziali (alto, basso, lungo, breve) non autorizza a ritenere che la spazialità sia peculiare della percezione acustica, poiché tali percezioni possono acquisire il valore di spazialità soltanto se inserite in esperienze complesse del soggetto.

Un suono che mi giunge per la durata di pochi secondi può essere comparato ad analogo suono che impegni la mia percezione per una durata assai più rilevante: i due suoni costituiscono quindi unità comparabili, delle quali posso dire breve la prima e lunga la seconda; tuttavia le due unità sono comparabili in conseguenza del tempo di manifestazione del suono e alla mia coscienza permane ben chiara e distinta la temporalità dei due fenomeni.

Soltanto prendendo in prestito dalle immagini visive la caratteristica dell’estensione simultanea, abbiamo la possibilità di rappresentare i due suoni l’uno con una linea breve e l’altro con una linea assai più lunga: ciò non esclude che da un punto di vista percettivo e immaginativo i due fatti restino ben distinti anche se logicamente si fondano per comodità di rappresentazione.

L’evoluzione delle immagini acustiche avrebbe quindi un significato assai modesto ai fini della conoscenza del mondo esterno del bambino non vedente, se non si accompagnasse strettamente all’evoluzione di altri tipi di immagini, prendendo da queste il proprio contenuto di spazialità.

Potremo anzi affermare che non sarebbe ammissibile una evoluzione delle immagini acustiche nel senso di un loro progressivo affermarsi come positiva esperienza del soggetto nei confronti della realtà esterna, senza il parallelo svolgersi dell’esperienza negli altri settori della percettività.

Quanto affermiamo non può risultare nuovo o strano agli educatori dei bambini ciechi, i quali ben sanno come uno sfasamento nell’armonico evolversi della vita percettiva e immaginativa dei loro educandi comporti sempre manifestazioni anormali nella vita pratica e nelle strutture logiche del pensiero.

Come giustificare altrimenti l’atteggiamento di bambini non vedenti vincolati ad una vita percettiva esclusivamente fondata sulle manifestazioni acustiche del mondo che li circonda, con paurosi squilibri tra il loro patrimonio di voci e di suoni e quello di immagini aderenti a forme e strutture degli oggetti? Tale squilibrio ha spesso indotto in chi non vede la errata convinzione che il mondo dei privi della vista un mondo senza forme e senza dimensioni, poiché il suono e i rumori, le voci e le risonanze, non hanno forma né dimensione.

Il primo ciclo metodologico, che scaturisce dalle considerazioni sin qui fatte, appare quindi fondato sulla necessità di riportare direttamente l’esperienza acustica del bambino non vedente nell’ambito della sua esperienza totale del mondo esterno, facendo sì che proprio l’esperienza acustica si ponga come stimolo per la conquista di conoscenze sempre più ampie e più complesse e agisca come sintesi degli elementi colti mediante altre percezioni.

Da un punto di vista metodologico l’educatore deve tener conto delle fasi di organizzazione spontanea attraverso le quali l’evoluzione delle immagini acustiche è passata, dal momento in cui si è iniziata la vita del bambino al momento in cui il bambino stesso viene accolto nella scuola per iniziare con metodo e in ambiente predeterminato un più significativo incontro con la realtà circostante.

Consideriamo il caso più semplice tra gli innumerevoli che si possono presentare in una scuola per fanciulli ciechi, e cioè il caso determinato dalla cecità congenita, dopo aver debitamente avvertito che le astrazioni da noi compiute come le esemplificazioni adottate non possono aver valore assoluto ma soltanto un significato di indicazione e di suggestione per gli educatori; possiamo notare che l’evoluzione delle immagini acustiche nel bambino cieco dalla nascita si svolge in tre momenti essenziali, riconoscibili l’uno dall’altro per il risalto di situazioni particolari, ma che non possono dirsi assolutamente successivi da un punto di vista cronologico e nettamente differenziabili in periodi precisi e determinati.

I tre momenti comprendono l’intero periodo pre-scolare del bambino non vedente e caratterizzano per così dire il suo rapporto con il mondo esterno.

Infatti il primo momento, che si estende per tutta la durata del primo anno di vita, può dirsi della assoluta centralità percettiva del fanciullo: in questo momento è il mondo con le sue manifestazioni acustiche che va verso il bambino significandogli la presenza delle cose e degli oggetti, stimolando il suo interesse per quanto accade intorno a lui, suscitando una vita di relazione che può essere accolta come positiva nei confronti delle necessità di crescita del fanciullo stesso.

In questo periodo la vita del bambino nei confronti del mondo esterno è particolarmente statica; il bambino giace per lunghe ore nel proprio lettino siede nella propria carrozzella o si appoggia alle braccia degli adulti; non partecipa cioè che in modo scarso al movimento che caratterizza il mondo che lo circonda.

In questo atteggiamento il bambino si limita a cogliere quegli aspetti del mondo circostante che abbiano maggior significato per il soddisfacimento dei suoi bisogni e ciò vale pienamente anche per il bambino cieco, che impara a riconoscere gli oggetti dal loro suono, le persone dalle voci, gli ambienti dalle sonorità e risonanze; reagendo in modo adeguato sotto lo stimolo delle percezioni acustiche alle situazioni diverse e quindi strutturando una vita affettiva assolutamente normale.

In questo periodo possiamo dire che gli effetti della minorazione visiva ai fini pratici del comportamento del bambino cieco nei confronti col mondo esterno, sono di scarsa importanza, poiché le percezioni acustiche e le conseguenti immagini che si strutturano, hanno un potere pienamente vicariante delle percezioni visive.

Il battere del cucchiaio sull’orlo della tazza avverte il bambino che non vede della presenza del cibo, così come il vocìo dei membri della famiglia lo assicura che non è solo; la voce della mamma poi costituisce per lui un mondo acustico complesso e profondo: un mondo in cui vi è la tenerezza, l’incoraggiamento, lo sconforto e il rimprovero.

Attraverso quella voce si stabilisce il tramite più immediato con l’umanità degli altri e per quel tramite l’affettività del bambino si struttura, si plasma e cresce.

Sarebbe comunque non aderente alla realtà psicologica del bambino cieco nel primo anno di vita, non avvertire l’insorgere delle prime carenze conseguenti alla minorazione della vista: giacché se le immagini acustiche assolvono egregiamente il loro compito di mantenere uno stretto contatto ai fini pratici tra il bambino e il mondo che lo circonda, esse non sono tuttavia sufficienti a stimolare in lui un comportamento imitativo che si traduce in ultima analisi nella plasmazione del movimento, nell’adeguazione dell’attività motoria alle esigenze nuove proposte dallo stesso processo di crescita.

Le carenze si manifesteranno in modo sempre più evidente a mano a mano che il processo di crescita porterà il bambino verso un’attività motoria sempre più valida e soprattutto sempre più autonoma.

Quando poi sopraggiungerà quel fatto rivoluzionario nell’esistenza dell’uomo che va sotto il nome di prima deambulazione, potremo dire che si inizia il secondo momento dell’evoluzione delle immagini acustiche, poiché esse dovrebbero a questo punto supplire le immagini visive nella guida del bambino verso il mondo esterno, verso la quotidiana scoperta di nuovi aspetti della realtà e, più ancora, verso l’acquisizione di quegli automatismi motori che consentono di adeguare il movimento alle cose e di acquisire esperienze della realtà.

Le immagini acustiche a questo punto dimostrano chiaramente la loro insufficienza nel sorreggere il bambino verso la scoperta del mondo che lo circonda e si inizia per così dire una fase negativa della vita infantile del piccolo cieco poiché, trascinato dal contenuto aspaziale e aformale delle percezioni acustiche e delle immagini che ne derivano, egli finirà progressivamente per disinteressarsi delle cose e degli oggetti, per limitare la sua esistenza a un sempre più statico ascoltare che soddisfi la sete di conoscenza presente in ogni bambino.

Questo secondo momento potrebbe protrarsi a lungo, potrebbe divenire anche l’atteggiamento caratteristico dell’esistenza intera, se la educazione non intervenisse per dare alle immagini acustiche un contenuto formale e plastico, un valore spaziale tale da ritenersi utilmente — ai fini della evoluzione psichica — sostitutivo delle percezioni e delle immagini visive.

Ed eccoci quindi al terzo momento dell’evoluzione delle immagini acustiche: terzo momento connesso con la possibilità del bambino di acquisire conoscenze di forme realmente corrispondenti agli oggetti e agli esseri che lo circondano.

Nel secondo momento il canto dell’uccello aveva un solo significato per il bambino, quello cioè di una serie più o meno melodiosa di note che distraeva la monotonia della sua esistenza e che riempiva il vuoto di tante ore prive di attività e di esperienze: così come il canto dell’uccello anche le voci delle persone e i rumori delle cose assolvevano solo a questo compito particolare, senza attrarre il fanciullo verso superiori elaborazioni utili ai fini conoscitivi.

Se invece per caso sarà capitato al piccolo non vedente di tenere in mano un uccello, di sentirlo palpitare vivo, di osservare il fremito delle alucce, la delicatezza delle penne e il rapido pulsare del piccolo cuore, se per caso avrà avuto la fortuna di cogliere il rapido frullo d’ali dell’uccellino che fugge dalla sua manina, il canto che giunge a rallegrare la sua solitudine porterà con sé immagini vive, ricordi caldi di emozione e stimolerà il desiderio di nuove conoscenze e di nuovi contatti con la vita che pulsa intorno.

Evoluzione delle immagini tattili

Le percezioni acustiche offrono un mondo di conoscenze immediate, che scaturiscono direttamente dall’ambiente che circonda il piccolo non vedente, offrono per così dire costanti pretesti e continue sollecitazioni perché il bambino non si senta solo e sia costantemente spronato ad avvertire al di là del proprio corpo, del pulsare della propria vita biologica, l’esistere di altre forme di vita, di altre attività che s’intrecciano e si ripetono con ritmi che egli impara via via a conoscere.

Tuttavia l’immediatezza delle percezioni acustiche è strettamente legata alla labilità e alla inconsistenza, agli effetti della costituzione, di una rappresentazione organica ed efficace e quindi al costituirsi di concetti chiari e precisi che trovino corrispondenza nella realtà.

Se il piccolo non vedente non possedesse unitamente al mondo dei suoni, la possibilità di acquisire immagini tattili della realtà che lo circonda, se non avesse la possibilità di compiere un’esperienza motoria dell’ambiente, di stabilire un continuo e progressivo dialogo tattile con le cose e con gli altri esseri, il patrimonio acustico non sarebbe sufficiente a promuovere la sua educazione psicologica, a costituire relazioni spaziali e a dare al bambino la dimensione della realtà in cui vive.

Pensiamo, sorretti in questa nostra opinione da illustri esempi che riteniamo superfluo richiamare, come sia possibile acquisire esperienza del mondo circostante pur mancando i due fondamentali sensi della vista e dell’udito, ma non sarebbe assolutamente possibile giungere a un’esperienza utile e significativa se venisse meno il senso del tatto.

Sul primo numero di «Luce con luce» del 1963 è apparso un interessante articolo in cui sono riportate le esperienze magistrali di un’ottima maestra che si occupò per lunghi anni dell’educazione di un bambino cieco-sordo.

L’articolo, interessante in tutte le sue parti, riporta però osservazioni che hanno per noi un enorme valore psicologico quando illustra i primi anni della vita del bambino cieco-sordo, mettendo in rilievo le sue attività motorie e come, nonostante la duplice minorazione, sia pervenuto all’acquisizione di un considerevole patrimonio di immagini tattili: patrimonio costituitesi spontaneamente attraverso il quotidiano contatto del bambino con l’ambiente.

Nel caso in questione il patrimonio di immagini tattili, non essendo ancora corredato dalla immediatezza delle percezioni acustiche, non poteva giungere, senza l’intervento di un’educazione speciale, a costituire un utile dialogo tra il piccolo cieco e il mondo sociale, tuttavia una relazione con le cose appariva assai chiaramente prima ancora che la scuola intervenisse col proprio metodo.

Si deve quindi ritenere che a maggior ragione presso i bambini ciechi si stabilisca spontaneamente un primo patrimonio di esperienze tattili, determinato dallo spontaneo contatto con l’ambiente: la consistenza e la validità di tale patrimonio varia naturalmente, come abbiamo già osservato, da individuo a individuo, essendo strettamente connesso il suo costituirsi con alcune caratteristiche psicologiche individuali del bambino quali la curiosità, la vivacità motoria, la tendenza a una facile memorizzazione.

Nel caso del piccolo cieco-sordo era forse la spinta del bisogno di rompere l’isolamento, di vincere l’inerzia e la solitudine, che aveva determinato il sorgere di un patrimonio immaginativo tattile tanto dinamico e consistente: resta tuttavia il fatto che pur in circostanze tanto particolari sia stato possibile giungere a momenti significativi nel processo conoscitivo.

Il bambino cieco nei primissimi anni di vita è forse più portato a soddisfare il proprio bisogno di conoscenza mediante le percezioni acustiche, ciò nonostante non possiamo trascurare il fatto che anche a livelli molto modesti si stabiliscono pur sempre dei contatti necessari con il mondo esterno.

Il bambino maneggia quotidianamente oggetti che costituiscono il corredo indispensabile per il soddisfacimento dei suoi bisogni, giunge spesso a costituire interessanti relazioni tra le cose ed a abbozzare giuochi con gli oggetti stessi.

La sua tendenza sarà sempre diretta però a trasportare l’attività ludica dalle relazioni spaziali e dalle combinazioni immaginative, nell’ambito più congeniale e meno impegnativo delle percezioni acustiche. Se diamo al bambino cieco di tre anni alcune assicelle con cui giuocare potrà succedere che, invece di sovrapporle, di combinarle, di porle a contatto con altri oggetti, egli preferisca batterle tra loro onde provocare rumori e vibrazioni.

Sarà questo il suo giuoco preferito e vi si applicherà con l’accanimento proprio dei bambini, ponendovi attenzione e studio tanto che giungerà a trarre rumori diversi secondo un piano prescelto, indicativo della sua compartecipazione attiva all’esercizio motorio.

Possiamo quindi affermare che le immagini tattili nei primissimi anni di vita del bambino hanno un valore prevalentemente riferito al soddisfacimento dei fondamentali bisogni naturali; appaiono statiche, sconnesse, incomplete e soprattutto inadeguate a strutturare nuovi campi immaginativi.

L’educazione, al momento dell’ingresso del bambino nella scuola materna, dovrà anzitutto dare dinamicità a queste immagini, stabilire tra esse sempre più strette correlazioni, sospingerle a divenire attive ai fini della strutturazione di nuovi contenuti immaginativi.

Difficilmente potremo scorgere bambini ciechi in età pre-scolare applicarsi ai cosidetti giuochi di fantasia, a quei giuochi cioè che trasformano la realtà rompendo il confine tra l’immaginario e il reale. La scopa che si fa cavalluccio, le sedie accostate e sospinte che diventano treno, il pezzo di legno avvolto con un panno che assume la suggestione di una bambola o della compagna di giuoco: sono trasposizioni del reale nel fantastico che non ritroviamo spontaneamente presenti nel bambino cieco.

Egli giuocherà al treno, ma soltanto ripetendone il rumore, se mai lo avrà conosciuto; giuocherà al cavalluccio se sarà trasportato da altri che imitino il caratteristico movimento del cavallo: da sé spontaneamente non si calerà in alcuna situazione nuova, proprio perché gli mancheranno gli stimoli per farlo e cioè le immagini che richiamino situazioni diverse da amalgamare, da confondere, da trasporre.

Alla scuola materna e alla scuola primaria spetta il grave compito di suscitare il dinamismo immaginativo, di suscitarlo al punto che il fanciullo sappia integrare immaginativamente quelle percezioni del mondo esterno che attraverso il tatto e l’udito giungono necessariamente a lui parziali e frammentarie.

Non tutto può essere esplorato con la mano o ascoltato con l’udito, non tutto può essere colto anche con quella specie di sintesi percettiva che solitamente va sotto il nome di sensazione degli ostacoli: pertanto la scuola deve poter dare i mezzi al bambino per integrare immaginativamente con una costante attività di elaborazione, di comparazione, di trasposizione dei dati sensoriali che costituiscono il patrimonio fondamentale del fanciullo che non vede.

Le immagini da ordinare e da integrare sono innumerevoli, potremo dire infinite. Possiamo pensare che esse possano essere educate nel senso precedentemente indicato soltanto attraverso lo spontaneo lavorio della psichicità del fanciullo?

A questo punto dobbiamo chiederci: ha senso parlare nelle nostre scuole di autoeducazione, intendendo con tale espressione riferirci al particolare metodo educativo secondo il quale è il fanciullo che educa se stesso nell’attivo e spontaneo contatto con la realtà?

Crediamo di poter affermare che l’autoeducazione non è accettabile come metodo nelle nostre scuole proprio per il valore di normalizzazione che esse hanno nei confronti della facoltà immaginativa e dello sviluppo sensoriale.

L’evoluzione delle immagini tattili può compiersi nel senso di un ordinato processo di riorganizzazione delle immagini stesse soltanto se la osservazione del mondo reale compiuta dal fanciullo verrà ordinata con rigore scientifico, guidata con precise tecniche didattiche, stimolata da materiale speciale e da ambienti precostituiti.

Nella sua osservazione il bambino deve procedere dal piccolo al grande, dal semplice al complesso, tenendo sempre ferma la relazione fondamentale tra sé e gli oggetti: deve simultaneamente cogliere la forma e la posizione dell’oggetto in riferimento prima a se stesso e poi all’ambiente.

Ci si potrebbe obbiettare che un siffatto procedimento è analogo all’osservazione nei bambini sensorialmente normali e che non vi sarebbe quindi nulla di speciale in un metodo che ordini l’osservazione dal piccolo al grande, dal semplice al complesso, che stimoli il riferimento degli oggetti a sé e successivamente all’ambiente.

L’obbiezione avrebbe ragion d’essere se non si tenesse conto della fondamentale diversità di modo in cui si compie l’esperienza nei due casi: per il bambino che vede la forma degli oggetti e la relazione tra gli stessi, così come il riferimento delle forme a sé e all’ambiente, vengono compiuti immediatamente nell’atto stesso della percezione, vengono realizzati anche se temporaneamente nell’atto percettivo, mentre per il bambino che non vede la ricostruzione formale dell’oggetto, la relazione tra le forme e il riferimento degli oggetti a sé e all’ambiente costituiscono operazioni psicologiche non simultanee alla percezione e quindi necessariamente trasferite nel campo dell’immaginazione.

Il procedere dal semplice al complesso, dal piccolo al grande, l’osservazione alla forma e la comparazione assumono quindi un valore assolutamente diverso nel caso del bambino non vedente, diverso soprattutto nei confronti del procedimento metodologico applicato alla loro evoluzione.

Nel nostro caso procedere dal piccolo al grande ai fini dell’evoluzione delle immagini tattili significa soprattutto procedere da forme che possono essere colte sinteticamente in una globalità percettiva a forme che impegnano invece l’esplorazione analitica procedente da particolari a particolari, da elemento a elemento, anche se il processo educativo dovrà fare in modo che l’analisi del grande non sia una giustapposizione di elementi ma una ricostruzione ordinata da un’immagine tipo che si costituisce come immagine guida.

Il piccolo cieco che osservi un’automobile in dimensioni normali, o un cavallo a grandezza naturale, potrà utilmente giungere alla costruzione di un’immagine aderente all’oggetto osservato, se avrà avuto la possibilità di aver precedentemente strutturato l’immagine tipo o guida, se in altri termini, la sua osservazione non sarà una scoperta originale di nuovi elementi che si presenteranno in una loro forma predominante non correlata con le forme particolari precedenti.

L’immagine guida si costituisce nel bambino che non vede soltanto attraverso l’osservazione sintetica delle forme e ciò riteniamo debba costituire uno dei princìpi della metodologia differenziata delle scuole per ciechi, sarebbe tuttavia errato ritenere che di tutti gli oggetti e di tutti gli esseri possano essere ricostruite immagini guida, anche se di tutto si può ottenere un’immagine tipo.

Le immagini guida sono essenzialmente utili ai fini educativi e cioè nel momento in cui è necessario abituare il bambino a cogliere gli elementi essenziali in una simultaneità percettiva e mediante una forma significativa.

Quando tra la sua mano e la sua immaginazione si saranno costituite le relazioni necessarie fondamentali per il rapido trasformarsi della percezione tattile in immagine, quando il bambino toccherà con ordine e intelligenza, sapendo per dinamismo immaginativo la disposizione degli elementi che concorrono a formare l’oggetto, allora non ci sarà più necessità dell’immagine guida, perché il bambino avrà acquisito non solo un vasto patrimonio di immagini, ma soprattutto quel dinamismo dell’immaginazione per cui è possibile tradurre elementi da un’immagine all’altra per la composizione di nuove immagini.

La funzione della forma geometrica nell’evoluzione dell’immaginazione

L’immagine-guida di cui abbiamo visto l’insostituibile funzione per una ordinata ricostruzione delle immagini oggettive può essere ridotta nella sua schematicità più elementare all’immagine di forme geometriche.

Invero ogni forma può essere ricondotta, così come ogni figura, ad una struttura geometrica fondamentale mediante l’astrazione dei caratteri individualizzanti e specifici.

Il procedimento, che potremmo definire geometrizzazione della forma, trova il suo fondamento nello stesso processo di creazione artistica, quando l’arte si applica alla produzione di forme, di figure e di volumi.

I primi artisti nel campo della pittura partivano da una concezione dei corpo umano schematizzata in un triangolo con la base verso l’alto, e lo schema geometrico può essere riscontrato anche in pittori della grande epoca del Rinascimento, per non parlare dell’astrattismo che ha scarnificato le forme e le figure sino a giungere a un simbolismo geometrico puramente razionale.

Ci rendiamo perfettamente conto che la riduzione in forme geometriche può essere fatta essenzialmente di una rappresentazione razionale della realtà, essendo tale forma una conquista della maturità intellettiva, del potere di analisi affidato alla ragione e non di una percezione globale ed immediata della realtà.

Il fanciullo coglie la realtà così come essa gli si presenta, la coglie nell’immediatezza della forma, nella ricchezza dei particolari, la sente e la segue come un linguaggio concreto di cui avverte, prima ancora di comprendere, la grande suggestione.

Tuttavia, se ci soffermiamo ad analizzare il disegno infantile — soprattutto quello che caratterizza l’età prescolare — non ci sarà difficile rilevare come il bambino esprima con tentativi geometrici le proprie immagini degli oggetti e degli esseri.

L’armonia della forma è conquista successiva alla prima infanzia, quando cioè è subentrata nel bambino la possibilità di discriminare tra forme, di individualizzarle, di cogliere e di riprodurne mediante espressione grafica o plastica la fisionomia.

Il processo che noi riscontriamo nei tentativi di espressione grafica nei bambini in età pre scolare, processo cioè che va dalla schematicità geometrica alla complessità della forma individualizzata, può ritenersi dimostrazione dello sforzo espressivo e chiarificatore a cui spontaneamente si sottopone la mente infantile, e se, per corrispondere a questo tentativo di completamento dell’immagine, noi sospingessimo il bambino a indugiare sull’analisi della schematicità geometrica delle immagini, rischieremmo di compromettere lo slancio positivo verso la evoluzione della sua conoscenza che tende a espressioni sempre più chiare e consapevoli.

A questo principio si sono ispirati gli attuali metodi di insegnamento che, con diverse colorazioni e sfumature, partono tutti da un globalismo della percezione, riconoscendo a questa forma primitiva di conoscenza la più alta aderenza al reale processo psicologico del bambino.

Nella scuola primaria quindi e soprattutto nel primo ciclo di essa la realtà viene fatta osservare al bambino nella sua interezza percettiva e formale; si pone ogni cura affinché egli possa cogliere il maggior numero di elementi possibili nella più salda e più valida unità percettiva.

Nessun maestro penserà mai di indicare deliberatamente al bambino lo schema geometrico e quindi razionale da cui deriva naturalmente la forma propria di ogni oggetto, ma lascerà che il bambino la scopra da sé mediante il lento e normale evolversi della sua mente verso le superiori forme della razionalità.

A conferma di ciò, gli attuali programmi pongono soltanto negli ultimi due anni del secondo ciclo della scuola primaria, lo studio della geometria non solo come razionale conoscenza di leggi e di princìpi, ma soprattutto come riconoscimento della presenza della forma geometrica della realtà.

La minorazione visiva a nostro avviso determina la necessità di anticipare il processo di astrazione della forma geometrica della realtà, pur senza con questo pretendere di anticipare i tempi dell’evoluzione psicologica del bambino.

La metodologia di Augusto Romagnoli trova proprio nella rilevazione della forma geometrica degli oggetti uno dei suoi princìpi fondamentali; ma sarebbe contraddittorio al pensiero pedagogico e a tutto lo spirito del metodo Romagnoli ritenere che la rilevazione della forma geometrica corrisponda all’astrazione dei princìpi geometrici caratteristica di una mente più matura e di un potere razionale ancora sconosciuto al bambino della scuola materna e del primo ciclo della scuola primaria.

La forma geometrica che il bambino cieco deve abituarsi a scoprire per ordinare la propria esplorazione tattile e acustica della realtà, non può che corrispondere a quel tipo di immagine che precedentemente abbiamo illustrato, che si costituisce un indispensabile fondamento e guida perché la naturale lentezza e analicità della esplorazione tattile possa concludersi con ricostruzioni formali complesse e complete.

Il piccolo non vedente al quale si chiede di toccare il piano del proprio tavolo da studio o della cattedra dell’insegnante o il piano di qualsiasi altro oggetto analogo, impiega nella sua esplorazione un tempo determinato per poter scorrere le manine lungo il bordo del piano e intuirne la superficie compresa in esso; se non sarà abituato a ricordare la coordinazione dei vari elementi, se non avrà acquisito una forza immaginativa di organizzazione, di strutturazione degli elementi stessi tale da mantenere salda e operante l’unità percettiva, correremo il rischio che egli non sappia e non possa mai giungere alla vera e propria rappresentazione della forma.

Quando però nei suoi giuochi, nelle sue attività di applicazione scolastiche nei vari contatti con gli oggetti e cose, egli sarà stato abituato a maneggiare forme geometriche (mattoncini, cubi, assicelle, forme per incastri, ecc.), si sarà costituita in lui una abitudine a determinate forme e soprattutto si saranno strutturate tali forme con evidenza e con piena corrispondenza alle esigenze conoscitive della sua mente.

Saprà che cos’è il triangolo non per definizione o per astrazione ma in conseguenza di un’esperienza più volte ripetuta, saprà — sempre per esperienza sincreticamente acquisita — che il rettangolo ha i lati uguali a due a due e saprà quindi attendersi, una volta che la sua manina sia giunta al termine di un lato lungo e di uno corto, il presentarsi di un altro lato lungo senza che con ciò sia stato necessario parlargli delle proprietà delle figure piane.

Analogo processo avviene anche nel bambino che vede, il quale spontaneamente coglie le forme geometriche fondamentali e ne costituisce immagini guida: la differenza consiste soltanto nel fatto che il piccolo non vedente non giungerebbe mai da solo, senza la sollecitazione di un intervento educativo, alla rappresentazione della realtà nei termini e in forme geometriche.

Il bambino che vede, se ripensa in classe alla propria cameretta, la rivede in forma geometrica, e se la maestra gli chiede di farne il disegno egli saprà immediatamente tracciare un rettangolo più o meno esatto ma comunque sempre corrispondente ad una approssimativa figura geometrica.

Quali immagini avrà il bambino che non vede dell’ambiente in cui vive: della sua camera, dell’aula scolastica, dei corridoi, ecc.? Lo spazio che deve esplorare esula dalla portata della sua mano, non può essere racchiuso in una immediata unità percettiva, eppure egli immediatamente lo sente, perché ci vive dentro con tutta la sua persona, perché tutta la sua sensorialità residua è sollecitata da elementi che provengono dall’ambiente stesso.

A questo punto acquista maggior significato quanto precedentemente dicemmo circa la opportunità di procedere nell’educazione dell’immaginazione dal piccolo al grande, dalla forma cioè immediatamente percepibile attraverso l’esplorazione tattile, a quella che invece può essere solo ricostruita mediatamente con l’intervento della rappresentazione immaginativa.

L’aula, la camera, i corridoi possono essere ricondotti formalmente a figure geometriche, ma sarebbe errato limitare ad una informazione nozionistica e teorica la conoscenza di essi da parte del bambino.

Possiamo rappresentargli simbolicamente il pavimento dell’aula con la forma del piano del suo tavolino, ma non essendo ancora il bambino abituato ai rapporti e quindi ad una razionale comparazione di misura, non potremo determinare dalla forma piccola l’immediato sorgere di quella grande: la presentazione della comparazione fatta in questi termini si concluderebbe esclusivamente in una pericolosa sovrapposizione di idee e pertanto le due immagini che avremmo voluto comparare, povere di contenuto sensoriale come sono, finirebbero per eludersi a vicenda.

L’evoluzione delle immagini d’ambiente

Dovremmo dunque concludere, di fronte alla perplessità precedentemente espressa, che non sia possibile al non vedente giungere a strutturar delle immagini d’ambiente che superino la portata esplorativa immediata delle sue mani e delle sue braccia.

A questo punto ci torna alla mente un aforisma di un filosofo associazionista dei primi dell’800, il quale asseriva che i ciechi avrebbero potuto benissimo avere la rappresentazione immaginativa anche dell’intero globo terracqueo purché il loro organo sensorio di esplorazione e cioè le dita lo potessero esplorare immediatamente avendone una sensazione diretta e quindi un’esperienza concreta.

Di fronte a tale perplessità, se non esistessero soluzioni positive del problema, se non intervenisse una diversa impostazione filosofica dell’attività dello spirito umano, si dovrebbe concludere necessariamente che la mancanza della vista preclude la conoscenza delle forme e delle dimensioni con cui normalmente si presenta la realtà circostante.

Sarebbe possibile, noi ci chiediamo, ammettere la normalità di un pensiero così gravemente limitato? E più ancora: sarebbe ammissibile un’azione normale che derivi da un pensiero così limitato? A chi non vede non solo verrebbe contestata la possibilità di pensare come gli altri, di uniformarsi al comune processo conoscitivo, di attingere al grande patrimonio scientifico e culturale dell’umanità, ma anche quella di agire uniformando la propria azione nel grande sforzo produttivo della società.

Dovremmo parlare a proposito di chi non vede di esclusi dalla cultura e dalla vita e ciò non solo contraddice all’esperienza che abbiamo del contributo dato da uomini non vedenti alla cultura e alla arte, ma anche e soprattutto ai principii su cui riteniamo si fondino la conoscenza umana e i dinamismi psicologici costituenti la personalità dell’uomo.

Riprendiamo il problema esattamente con la formulazione dubitativa precedentemente espressa: come è possibile procedere dall’immagine colta con un contenuto percettivo immediato, all’immagine che sfugge a tale immediatezza? L’immagine guida, e nel caso più comune di essa la forma geometrica, non essendo stato possibile procedere alla sua razionalizzazione proprio per la situazione evolutiva in cui si trova il bambino all’età del primo ciclo della scuola primaria, non può essere tradotta e ampliata in altre situazioni percettive.

Invero essa è sorta da un’esperienza sensoriale e ha continuato a svolgersi attraverso esperienze successive.

Da qui la necessità di postulare anche per immagini che esulino dall’unità percettiva immediata, una provenienza percettiva, un fondamento in un’esperienza direttamente compiuta.

Abbiamo già osservato come il bambino non vedente avverte lo ambiente in cui vive, distingue spontaneamente senza particolari interventi educativi se in quel determinato momento si trova in una stanza oppure all’aperto, avverte la differenza tra la piccola sua camera e una grande sala, coglie quindi un insieme confusamente strutturato che agisce sulla sua coscienza dandogli alcuni elementi primitivi di orientamento.

L’analisi di questa percezione globale e confusa dell’ambiente, che pur tuttavia consente al bambino di discriminare ambiente da ambiente, di riconoscere quelli in cui vive abitualmente, è sempre stata tentata con particolari studi e quando non è stato possibile far luce sulla natura di siffatti elementi percettivi, si è parlato di facoltà misteriosa o di sesto senso.

Noi crediamo che non sia necessario ricorrere a interpretazioni speciali e ad ipotesi di sfruttamento di sensi embrionali che verrebbero sviluppati per il principio di adattamento qualora venga meno la situazione normale di vita: noi pensiamo che a costituire la percezione confusa e globale degli ambienti concorrano le sensazioni acustiche in grado prevalente, quelle tattili in grado secondario e che entrambe siano strutturate in una unità cosciente dall’esperienza motoria del soggetto.

Per quanto sia limitata l’attività motoria del bambino non vedente, per quanto essa tenda ad una progressiva e costante involuzione, qualora non intervengano opportune stimolazioni educative, una esperienza di base egli ha pur sempre acquisito dell’ambiente in cui vive: si è mosso nella sua stanza, ha percorso più e più volte la distanza tra punti diversi traendo dalla durata dello sforzo la consapevolezza della distanza stessa.

Anche quando si voglia considerare la povertà di un’attività motoria che si concretizza in uno sforzo muscolare oppresso e limitato dall’incertezza derivante dalla mancanza di un controllo e di una direzione precisa con cui regolare lo sforzo stesso, pur tuttavia anche entro questi limiti l’attività motoria giunge sempre a concretizzare un’esperienza, a dare significato ai termini spaziali vicino e lontano, lungo e breve.

L’ambiente viene quindi avvertito e discriminato dal piccolo non vedente soprattutto da elementi di triplice natura percettiva: uditivi, tattili e cinestesici.

Distinguere gli uni dagli altri nella costituita unità percettiva è quanto mai arduo: equivarrebbe a voler stabilire in termini precisi il contributo dato dall’esperienza motoria al senso di distanza nel bambino che vede, da quello direttamente offerto dalla vista.

L’educatore sa che il bambino ha coscienza dell’ambiente, ma è altrettanto certo che questa coscienza si limita a una sensazione confusa ed incerta, che non poggia direttamente su una rappresentazione immaginativa chiara, spazialmente distinta e all’occasione, graficamente rappresentabile.

A questa certezza l’educatore giunge osservando come il bambino si muova e viva nel suo ambiente: come collochi immaginativamente gli elementi che costituiscono l’ambiente stesso.

Nell’aula vi sono finestre e porte in una posizione precisa e determinata; vi sono mobili e suppellettili in posizione spesso variabile: il bambino che non vede sa dell’esistenza di questi elementi, ma come li colloca nella loro relazione spaziale e nella confusa immagine che ha dell’ambiente? Il fatto che egli riesca spesso senza un eccessivo numero di errori a ritrovare la porta dell’aula o della sua camera partendo dal posto in cui abitualmente si trova, non significa che egli agisca seguendo una chiara immagine dell’ambiente e sotto l’impressione delle tenui percezioni acustiche che gli provengono.

La sua azione è spesso guidata soltanto da una sorta di memoria muscolare o meglio dalla rappresentazione soltanto di se stesso e dei propri movimenti estesa nel tempo.

Per convincerci di ciò è sufficiente mutare più e più volte il punto di partenza dal quale il bambino deve orientare il proprio movimento per raggiungere la porta o la finestra.

Ogni cambiamento di punto di partenza implica per lui un nuovo periodo di addestramento motorio, cioè il ricostituirsi di quella che abbiamo chiamato la memoria muscolare del percorso.

Gli elementi acustici e tattili confusamente coordinati dall’esperienza motoria non sarebbero mai sufficienti da soli a far sorgere la immagine-guida dell’ambiente, se non intervenisse direttamente una rappresentazione immaginativa fondata su immagini guida precedentemente acquisite in un’attività percettiva immediata.

Quando il bambino non vedente avrà preso coscienza dell’ambiente in cui vive mediante l’attività motoria, mediante una confusa esperienza acustica di esso, mediante quel senso di pressione che sulle parti scoperte del suo corpo esercita l’aria trattenuta dalle pareti, egli potrà anche raffrontare in modo concreto il piano della stanza e quello del suo tavolino, poiché il contenuto sensoriale caratteristico all’ambiente darà alla nuova immagine gli appropriati elementi di estensione.

Anche se il rapporto tra le due immagini, l’una conseguente all’altra non sarà cosciente, anche se il bambino non saprà teoricamente quante volte il piano del tavolino è contenuto nell’aula, tuttavia la immagine-guida avrà svolto il suo compito, perché egli saprà anzitutto che il piano della sua aula ha la forma di quella del suo tavolino, saprà che l’uno è assai più grande dell’altro, perché sul piano egli si muove, cammina, corre incontrando altri tavolini ed altri oggetti.

Nello schema geometrico fondamentale egli avrà la possibilità di collocare in una disposizione chiara e precisa i vari elementi che concorrono a formare l’ambiente, cosicché quando dovrà raggiungere uno di quegli elementi (porta, finestra o armadio), pur variando il punto di partenza, non sarà costretto a ricostruire faticosamente e pazientemente la memoria muscolare del percorso, ma gli basterà ritrovare se stesso nell’ambiente immaginativamente ricostruito: in tal modo procederà come se vedesse con occhio interno (per usare l’espressione del Revesz) calcolando intuitivamente un continuo rapporto tra sé e le cose che lo circondano.

Da questo principio metodologico possono scaturire suggestive applicazioni didattiche che giungono sino alle vette previste da Augusto Romagnoli quando tracciava la sua teoria dell’educazione estetica dei fanciulli ciechi.

Il maestro dei fanciulli che non vedono deve avere coscienza della necessità di saldare sempre più strettamente il fanciullo alla realtà che lo circonda poiché, nonostante egli cerchi di usare il linguaggio idoneo per un mondo fondato su esperienze diverse da quelle visive, non riuscirà mai a farsi comprendere dai suoi alunni se non potrà partire da un linguaggio comune e soprattutto da un analogo processo di rappresentazione della realtà.

Il fanciullo che non vede, staccato dalla realtà, si limiterà a cogliere di quanto gli viene offerto dalla scuola la parte meno formativa e più astratta, prenderà le nozioni così come esse possono essere raccolte senza essere assimilate, crederà di conoscere il mondo che lo circonda senza di fatto averne mai colto il volto o la voce, crederà di pensare come gli altri senza avere in comune un patrimonio di immagini da cui derivare conoscenza e sentimenti.

L’educazione dell’immaginazione si estende quindi a settori sempre più ampi della formazione del fanciullo, poiché chi non vede più che qualsiasi altro dovrà affidare all’attività integrativa dell’immaginazione il proprio mondo conoscitivo e affettivo.

La metodologia dell’immaginazione trova il suo compimento in un insegnamento attivo che faccia conto soprattutto dell’azione compiuta e voluta direttamente dal fanciullo che non vede, dall’azione intesa come celebrazione di uno spontaneo desiderio di fare, di una consapevole rappresentazione di ciò che è da farsi e di ciò che è stato fatto.