La sensibilità tattile come fonte di percezione spaziale

di Enrico Ceppi (fasc. 4, anno 2004)

[Già pubblicato in Luce con luce. Rivista trimestrale della Scuola di Metodo “Augusto Romagnoli” per gli educatori dei ciechi, 3(1959), n. 3, pp. 36-41.]

In condizioni fisiche e sensoriali normali, la percezione dello spazio è fornita dalla sintesi operata tra i dati di due sensi: la vista e il tatto. Tale sintesi mentale è originaria o acquisita? Essa appare cioè con l’apparire della coscienza o piuttosto, si va lentamente stabilendo e conformando con l’evolversi dell’individuo?

Nel primo caso si dovrebbe pensare ad un rigido innatismo, che giustifichi aprioristicamente il porsi delle immagini; nel secondo caso sembrerebbe dover accogliere l’istanza empiristica, fondata sul valore insostituibile dell’esperienza.

Al di fuori di ogni disputa filosofica e senza voler prendere posizione per l’una o l’altra tesi, pur convinti che fra le due sia sempre possibile una terza la quale concili i termini opposti, noi possiamo benissimo limitarci ad osservare sulla scorta dell’esperienza psicologica ciò che avviene di fatto e notare come l’esperienza vada costituendo quel patrimonio, sintetico che potrebbe sembrare originario.

La difficoltà comunque non si limita soltanto nel dover stabilire una originarietà percettiva, ma nel fissare la natura e il valore dei dati forniti dai due sensi fondamentali per la vita percettiva. Potremmo quindi chiederci: tra i due ordini di dati sensibili esiste una omogeneità che consenta, di fonderli in un’unica percezione, oppure essi sono eterogenei?

Se al primo quesito può trovarsi una risposta senza equivoco attraverso lo studio della psicologia dell’età evolutiva, al secondo quesito possiamo rispondere facendo tesoro dell’esperienza tratta dagli studi della psicopatologia.

Dalla psicologia infantile appare chiaro come i dati forniti dalle due fonti sensoriali rimangano per un certo tempo distinti e la sintesi, come attività mentale, si effettui soltanto lentamente, seguendo lo sviluppo psichico del bambino.

Una volta raggiunta l’unità percettiva, essa si impone in modo inscindibile; eppure permane sempre una netta distinzione tra i caratteri forniti alla rappresentazione mentale dal tatto e quelli forniti dalla vista. Il carattere analitico dei primi e quello sintetico dei secondi, costituisce la prima e più fondamentale distinzione tra i dati sensoriali forniti dal tatto e quelli forniti dalla vista. In un certo senso l’analisi precede la sintesi, almeno nello sviluppo percettivo spaziale; di un oggetto si coglie prima un confuso insieme di particolari e l’analisi stessa viene resa possibile solo da una sincresi primitiva. Sarà il colore, il suono, il peso, la ruvidità o altro dato particolare a contraddistinguere l’oggetto, prima che la forma prenda un valore conoscitivo e assorba in sé tutte le altre qualità. Il bambino raggiunge l’esatta nozione della distanza soltanto nel secondo anno di età, quando cioè comincia a muoversi da solo e ad affermare attraverso la deambulazione una certa autonomia esplorativa. Prima di questo avvenimento importantissimo per la vita infantile, i movimenti del bambino sono sproporzionati nei confronti del senso della distanza. Tende le manine per cercare di afferrare oggetti distanti da lui di uno spazio superiore alla lunghezza delle sue braccia. In lui non vi è tanto una valutazione oggettiva del gesto fondata sulla probabilità di riuscita e più ancora sulla coscienza dei mezzi impiegati, ma soltanto una spinta emotiva, derivata dal desiderio di possedere l’oggetto. Urta con violenza oggetti troppo vicini, allarga le braccia per ripiegarle su cose che avrebbe potuto afferrare senza apertura brachiale. Tutti questi movimenti e questi fatti psichici, denotano una mancanza di coordinazione immaginativa motoria, e più ancora una immatura coordinazione occhio-mano. La deambulazione porta un dato nuovo, preziosissimo nella valutazione spaziale: lo sforzo muscolare. La sproporzione del gesto, la goffaggine, scompaiono lentamente, e subentra una coscienza del movimento nello spazio. Il bambino sembra prendere consapevolezza di un sé particolare, di un sé in relazione alle cose e al mondo che lo circonda. Tale consapevolezza è fondamentale per lo sviluppo psichico e motorio, e se ben osserviamo assume ben presto un carattere psicologico preminentemente visivo.

Si è così visto il ruolo svolto dalle due fonti di sensazioni e si è stabilito che le percezioni tattili precedono, nell’insieme dell’esperienza infantile, quelle visive. Osserva a proposito il Katz, che salvo condizioni eccezionalissime, non è possibile prescindere da nessuno di questi due ordini di sensazioni: un contenuto visivo sarà sempre nelle sensazioni tattili e viceversa. Ciò comunque sarà sempre vero qualora si sia operata in forza dell’esperienza una sintesi sia pure embrionale tra i due ordini di dati sensoriali.

Come è stato dimostrato dal Gelb e dal Goldstein nelle celebri esperienze su un ferito al cervello affetto da cecità psichica, le impressioni ottiche fanno diminuire di un multiplo persino la soglia di pressione. Sempre secondo le ipotesi dei due autori sopraricordati, si è potuto stabilire come esistano delle percezioni spaziali derivate esclusivamente dal senso del tatto. Il ferito oggetto di quegli studi, infatti, distingueva il liscio e il ruvido di superfici, distingueva con una certa approssimazione le qualità specifiche delle superfici (carta, pelle, lino, ecc.) e per mezzo del movimento dell’organo sensorio, distingueva superfici spugnose da velluti e da stoffe consimili. Ciò significa che nella sua mente, sebbene ogni ricordo si fosse spento e non venisse più percepito in modo significativo il movimento, bastava la semplice sensazione tattile a dare l’impressione di superficie, che in sostanza è un principio concreto di percezione spaziale, essendo ad essa peculiare la nozione di esteso.

Inoltre tale percezione non era soltanto primitiva e incerta, ma presentava pure un certo grado di organizzazione e di struttura. Basterebbe questa osservazione per controbattere e confutare la teoria di coloro che come il Witman vorrebbero escludere la possibilità ai ciechi di possedere una percezione spaziale.

A proposito è interessante ricordare ciò che osserva il Witman, e cioè che la sensazione spaziale avuta per il movimento altro non sarebbe se non una sensazione di contatto e di tensione, sensazioni di contatto e tensione che in uno stato di riposo perderebbero ogni differenziazione e avrebbero solo una efficienza qualitativa, sempre però inspaziale.

Anche il veggente, secondo lo psicologo citato, può facilmente rendersi conto di questo fatto; basta che socchiuda gli occhi e osservi energicamente le proprie percezioni: si accorgerà allora che la percezione in sé e per sé non gli fornisce nessuna rappresentazione spaziale, nessun punto di riferimento su cui edificare tale rappresentazione. Un’altra esperienza alla portata di tutti potrebbe confutare le opinioni dello psicologo precitato: il veggente chiuda pure gli occhi, ponga la sua mano aperta sulla tavola forse lo sforzo protratto a lungo può affievolire la sensazione, ma comunque vi sarà pur sempre sensazione di spazio; se non altro, la coscienza dello stesso stare aperta della mano distesa, costituisce un primo senso di spazialità insopprimibile. Né vale osservare che tale senso del disteso dell’aperto può derivare soprattutto dalla sensazione di tensione. Se si vuole inoltre insistere sul fatto che il movimento viene percepito in sé come successione di stati di tensione e di contatto, come variare quindi di sforzi muscolari e di atteggiamenti dell’articolazione, per ciò stesso non suscettibile di fornire una percezione spaziale, ci si può chiedere come mai il ferito al cervello del Goldstein, che più non possedeva la rappresentazione del movimento soggettivo e quindi della variazione degli stati di tensione, potesse tuttavia avere la percezione e la rappresentazione di superfici?

L’esperienza del Gelb e del Goldstein dànno ulteriore conferma alla teoria del Katz secondo la quale la percezione, puramente spaziale, derivi al privo della vista dal movimento oggettivo della mano sulla superficie. Tale movimento oggettivo dà il variare di superfici nella loro qualità, cioè, dice della ruvidità, della levigatezza ecc. di una superficie; tanto che è possibile concludere che come esistono qualità ottiche rappresentate dai colori che hanno di per sé un carattere spaziale, esistono anche qualità tattili che per sé possiedono tale carattere; questo potrebbe essere facilmente dimostrato, ma lo stesso Katz a questo punto ammonisce di non aver troppa fretta ad erigere una nuova psicologia che andrebbe a demolire un caposaldo della psicologia tradizionale, secondo la quale soltanto le sensazioni ottiche avrebbero un carattere di spazialità.

Anche dal solo tatto quindi, possono derivare percezioni spaziali, e dopo quanto è stato precedentemente detto, potrebbe apparire superato se non addirittura infantile, l’ipotesi di un altro psicologo tedesco, il Platner, per il quale il cieco nato non potrebbe avere nozione di spazio. Tale cognizione sarebbe nel cieco nato sostituita, a detta del Platner, dalla cognizione del tempo impiegato a percorrere lo spazio. Così la distanza che intercorre tra la testa e i piedi non sarebbe percepita dal soggetto cieco, per la diversa localizzazione delle membra, ma per la frazione di tempo, a volte impercettibile, che il cieco impiega per rendersi conto dell’esistenza delle diverse membra. L’ipotesi del Platner nata dallo studio di un soggetto nato cieco, tenuto in osservazione di laboratorio per circa tre settimane, avrebbe, se documentata, delle conseguenze addirittura catastrofiche. Il pensiero e l’immaginazione di chi non vede, sarebbe qualcosa di paurosamente artificioso, privo di aderenza alla realtà, chiuso in un frammentarismo e in una povertà di nozioni, da rendere inspiegabile il funzionamento di una razionalità qualsiasi.

Esistono quindi percezioni spaziali, sia pur tenui, derivate dal tatto, ed esiste soprattutto un carattere di spazialità peculiare al tatto stesso. Ciò comunque non deve farci concludere, per salvare la tradizione sull’esempio del Dunan, che esista uno spazio tattile e uno visivo; l’uno di chi vede, l’altro di chi non vede. Due spazi che sono totalmente differenti, l’uno fatto d’impressioni e di colori, l’altro di estensione e di concretezza. L’uno basato sulla distanza, l’altro soprattutto sul senso di pieno e di vuoto. Sarebbe un pericoloso confondere i termini, usare determinazioni diverse di un solo fatto psichico, erigendole a loro volta a fatti psichici indipendenti.

Coloro che come il Dunan sostengono l’esistenza di un duplice spazio, o per lo meno di una diversità fondamentale della rappresentazione spaziale del cieco nato e del vedente, hanno, nei confronti dell’esperienza buon giuoco. Infatti il cieco nato non può non confrontare i due spazi, per determinare i caratteri, così come non può farlo il vedente; né aiuta a risolvere il problema il caso di chi perda la vista già adulto, poiché per lui vale sempre lo spazio visivo e neppure il caso più raro del cieco nato che riacquisti improvvisamente la vista; poiché anche in questo caso, la maggior forza di percezione dello spazio visivo, annulla immediatamente la tenue organizzazione dello spazio tattile.

L’ipotesi resterebbe soltanto fondata su presupposti logici, indimostrabili alla luce dell’esperienza e accettabile appunto per la loro logicità. A costoro comunque sfuggiva una constatazione di fatto elementare che ai ciechi e ai vedenti è comune il modo di pensare, di procedere nell’organizzazione del pensiero e delle immagini.

Il cieco nato, non vive in un mondo inaccessibile e le immagini si traducono in sentimento, i sentimenti si fondano su immagini, analogamente a quanto avviene per chi vede. Evidentemente assistiamo ad un processo spaziale analogo che se deve ammettere, come ammette, una differenza, essa sarà soprattutto di grado e non di natura, quantitativa e non qualitativa.

Anche la terza dimensione è peculiare alla spazialità tattile. Infatti opponendo il pollice all’indice, si ottiene uno strumento di misurazione dello spessore, abbastanza preciso.

Possono essere percepite differenze di centesimi di millimetri nello spessore di carte. Il soggetto sottoposto all’esperimento, impiega nel riconoscimento di spessori di carte sottili, nel confrontare e nel distinguere, un tempo massimo non superiore a dieci secondi, e si osservano movimenti che non sono sempre gli stessi e identici. Il movimento più importante è quello del muscolo interessante la base del pollice; poiché appunto dalla contrazione di questo muscolo viene data la nozione dello spessore della superficie in esame. Tale percezione tattile di superficie è localizzabile in un punto determinato dell’involucro tegumentale oppure è sparsa in tutto il corpo? A mio avviso esso può essere localizzato prevalentemente sulla punta delle dita, poiché solo in questi punti è consentito un adeguato movimento esplorativo.

La percezione così ottenuta presenta un fenomeno di bipolarità, cioè, non solo vengono percepiti i caratteri oggettivi del corpo sentito, bensì vengono anche percepiti i caratteri soggettivi propri della parte esplorante. Mentre per la percezione visiva ciò che prevale è il carattere oggettivo. Infatti la retina che percepisce l’immagine, non viene percepita dalla coscienza, per la sensazione tattile, il soggetto avverte nello stesso tempo i caratteri oggettivi propri dell’oggetto e la modificazione soggettiva apportata alla parte senziente. Questo fenomeno non deve indurre in errore, non deve cioè giustificare quanto è stato affermato da molte teorie sensistiche e materialistiche, poiché la bipolarità ha valore solo sul puro terreno della sensazione. Nel momento rappresentativo, quando cioè entra in giuoco l’elaborazione logica del dato sensoriale, ciò che ha valore è l’oggetto che viene rappresentato come un tutto indipendente dall’organo soggettivo esplorante. Mentre per il sensismo la rappresentazione altro non è se non un ritorno della sensazione, un rinascere cioè della sensazione in tutti i suoi dati e in tutto il suo processo formativo. Così che la percezione sarebbe ridotta a pura e semplice sensazione, quando si sopprima anche la distinzione tra sensazione e rappresentazione. Così il fenomeno della bipolarità della sensazione tattile, se ben posto, è tale che si può concludere che la rappresentazione di essa è ugualmente data al cieco in modo tale da poter giustificare la pretesa di ritrovare in esso l’idea di uno spazio organizzato e completamente distinto e segregato.