Dalla pietà alla scienza

di Augusto Romagnoli (fasc. 1, anno 2014)

[Dalla Nuova Antologia, 1° luglio 1908 (Tratto da: A. Romagnoli, Pagine vissute di un educatore cieco, Firenze: Unione Italiana Ciechi, 1944, pp. 100-120).]

I ciechi non saranno infelici

La luce è la più gioconda energia dell’universo. Io, che ne sono privo quasi assolutamente sino dalla nascita, che appena distinguo il giorno dalla notte, ho sospinta tutta l’anima mia verso questo spiraglio di cielo, sebbene nulla mi giovi per la pratica della vita. Di luce colorai tutte le fantasie e i pensieri della più tenera età; ne feci il più bello dei miei idoli, le eressi il più splendido tempio. Idolo in un tempio, per altro, non dio nel cuore; questa fu la mia ventura, la felice cagione della mia salute. Il dio, meno sensibile perché troppo alto, inaccessibile senza una lunga e fedele ricerca quel dio che pure si chiama con la immagine più sublime dei sensi,

Luce intellettual piena d’amore,

sentii ben presto che non poteva perdersi da me per avere un organo corporeo imperfetto; non potevo essere io dannato alle tenebre eterne senza colpa, non poteva madre natura aver creata una infelicità senza qualche provvido compenso segreto.

Io ragionava con un apriori nella mia incoscienza di fanciullo; ma chi sa, in fondo, che questi apriori del sentimento intimo spontaneo non siano i veri assiomi della scienza? Il fatto sta che, punto, sino da bambino, dalla pietà dei veggenti del sole, che disperavano tristemente per me, mi raccoglieva in un pensiero ardito: — Tutto quello che gli altri vedono o fanno, io lo posso comprendere dalle parole e far fare dagli altri; voglio studiare e divenire maestro —.

Ero stato messo a cinque anni a scuola nell’Istituto dei ciechi di Bologna; là ascoltavo rapito un giovane dalla voce armoniosa e dolce, che sapevo essere cieco come me, perché me lo avevano detto; ma che sentivo parlarmi di ogni cosa, come e meglio degli altri. Il nome suo, a titolo di affetto e di riconoscenza è Oreste Alvisi. Egli modesto seguita l’opera sua da venticinque anni all’Istituto dei ciechi di Bologna e più d’uno scolaro gli farà onore:

…. Insere,

Moeliboee, piros; carpent tua poma nepotes.

Tornando a casa ogni giorno, avevo sempre qualche novità che stupiva di gioia i miei parenti e amici; capivo veramente bene; riproducevo forme e pensieri proprio come loro; dunque diverrei come tutti gli altri nelle conoscenze e nella vita. Da allora io seguii bensì gli altri al tempio della luce, ma non più invidiando e invece apprendendo a vedere per mezzo dei loro occhi, cattivandomeli con la dolcezza e la riconoscenza ; spesso per altro me ne uscivo soletto per andare in cerca del mio idolo vivo, vagheggiando un pensiero più bello del sole: «Voglio divenir maestro». Ed ecco fatto.

Col crescere, per altro, l’azione livellatrice dell’educazione e della società mi fece perdere quasi il mio obbiettivo; passai parecchi anni a studiare musica e soprattutto a intrecciare stuoie e impagliare sedie, le occupazioni che si ritengono più adatte e praticamente utili per un povero cieco. Impagliar sedie per l’appunto! un cieco ne deve frustare tante nella sua forzata immobilità! Ma forse, in vista del noto proverbio, che il calzolaio ha sempre le scarpe rotte, legando io tante sedie per gli altri, non ebbi tempo di prepararmene una per me: e in quelle lunghe ore di lavoro meccanico, la mente mia se ne andava lontana, errando senza mèta e senz’altro profitto forse, che l’eccitamento alla passione dell’attività e del nuovo.

Un altro cieco fu la tromba angelica della mia resurrezione: il mio buon amico Giovanni Suffriti, oggi accordatore e negoziante di pianoforti, [1] Morto precocemente a 38 anni il 13 novembre 1909.] triste della propria esperienza del tempo invano perduto senza raggiungere il monte vestito dei raggi del pianeta (l’amico mio per l’appunto è appassionatissimo di Dante), mi disse: «Tu, che hai tempo ancora, studia; prendi il ginnasio e raggiungi una laurea». La scintilla trovò subito il capo della miccia; ma la prudenza dei miei parenti e dei miei superiori per poco non la soffocò nuovamente. Non pareva, questa impresa, che sogno di ragazzo esaltato e origine di amare delusioni. Io provai sempre gusto di andare contro gli ostacoli: ma quella opposizione benevola e affettuosa, per fortuna, più che per merito mio, non mi vinse. Bisogna dire che vi fosse un destino. Era prefetto in quel tempo all’Istituto dei ciechi un uomo, di cui più singolare non ho mai incontrato. Pietro Gervasi ha nome; Dio li fa, poi li accompagna. Allievo forestale, poi ufficiale di cavalleria, poi studente di scienze naturali, poi maestro elementare, poi impiegato e studioso al Museo di Archeologia, poi prefetto, come sopra, poi, dopo altre metamorfosi, studente con la testa calva all’Accademia di Scultura e ha finito, se sia vero, scultore e intagliatore in stucchi a Ravensburg.[2] Tornato in Italia, in seguito alla grande guerra, si impiegò al Museo di Reggio Calabria e morì capotecnico di quel Comune nel 1932.] Egli si mise contro il direttore e contro i miei parenti per sostenermi e fare di un seggiolaio, cattivo organista e accordatore non che aspirante fornaio, un dottore.

Due anni dopo, vinte le difficoltà interne, mi presentavo a superare quelle dell’ammissione al Ginnasio pubblico. I professori si preoccupavano come potessi seguire le lezioni, fare i compiti e persino andare dal mio posto alla cattedra. Premettendo di volere accettare scrupolosamente il mio dovere di adattarmi in ogni cosa e non dimandando che il diritto di qualunque altro scolaro, la mia parola d’ordine era questa: «Lasciatemi provare»; chi poteva rifiutarsi a ciò? Dopo breve tempo le parti erano invertite; indescrivibile la stima e la simpatia dei professori e dei compagni; contenti tutti, fautori e sconsigliatori. Dietro di me, dall’Istituto stesso di ciechi e dallo stesso Regio ginnasio-liceo, un altro cieco ha presi i corsi universitari, Giuseppe Tugnoli ;

E questo fia suggel, eh’ ogni uomo sganni.

Se non che dall’Università si esce dottori, e il sogno mio di fanciullo era di diventare maestro. Credevo dovere interpretare la parola in senso largo, quando una nuova trasformazione mi aspettava: l’imposizione di un’altra persona, del Prof. Francesco Acri dell’Università di Bologna: «Voi dovete pagare un debito alla società; dovete fare uno studio sulla educazione dei ciechi»; e, desiderando io prendere pure la laurea in filosofia, egli mi dichiarò che non me l’avrebbe concessa se non per questo lavoro.

Da quando avevo preso a gioire della voce armoniosa del mio primo maestro, a poco a poco divenne l’ultimo dei miei pensieri quello di essere cieco; un istinto spontaneo mi aveva condotto a superare inconsciamente le difficoltà che la mia imperfezione fisica mi opponeva e solo questo mi rimaneva della cecità mia in cuore, farla passare inosservata agli altri, come aveva finito coll’essere a me stesso. Mi era anzi profondamente antipatico il movimento tendente a stringere i ciechi a far causa comune.

Una questione dei ciechi dopo tutto mi pareva la cosa più dannosa per noi. Io ragionavo così: la cecità è, per buona sorte, una condizione rara, una noce in un sacco non fa chiasso; i ciechi non sono abbastanza numerosi da formare una voce potente, una classe che si imponga alla società; dispèrsi invece, ognuno facilmente troverà il suo posticino; caso per caso è agevole provvedere, più ciechi insieme divengono un ingombro e un problema doloroso. Un cieco solo passa facilmente inosservato o trova una persona gentile che gli porga una mano; ma una riunione di ciechi incomincia subito col destare grande pietà e per accompagnarli soltanto occorre un piano di mobilitazione. Avevo anzi una espressione satirica insieme e triste per designare questa tendenza assembrativa, chiamandola il regnum caecorum.

C’era del vero in queste idee, e molto ne conservo, sebbene con diverso spirito, ancora; ma c’era un raffinato egoismo, del quale appunto ho voluto confessarmi per essere mezzo perdonato. Me ne corresse dunque il Prof. Acri: «Voi dovete pagare un debito alla società e venire in soccorso degli altri ciechi ancora derelitti, ancora sventurati». Mettermi allo studio di questa questione e divenirne appassionato e preso fu tutt’uno.

Quello che avvenne di me mi si permetta di esprimere con una curiosa analogia, che, così per associazione, mi ricorre alla mente: che cosa dovette sentirsi quel glorioso Teodorico tornato tra i suoi Goti, dai quali era stato portato via fanciullo alla Corte di Bisanzio? Che palpito di orgoglio nazionale, che bei pensieri di gloria con quel suo popolo forte, puro, semplice e fidente sulla società fiacca, corrotta, scettica del vecchio impero; come dové compiacersi di aver fuggita la tentazione di Costantinopoli e ricordarsi del povero Stilicone, barbaro come lui, perito nell’invidia dei Romani che non gli perdonarono neppure a prezzo della conservazione dell’impero la sua origine barbarica, e nell’odio dei barbari, dei quali aveva rinnegata la nazione!

Tolto ogni elemento di violenza e di odiosità, la comparazione può lumeggiare la condizione dei ciechi di fronte a quella degli altri uomini; essi sono come una nazione barbarica piena di forza compressa da lunga coercizione, di pazienza e di audacia, frutto di grandi privazioni e di coscienza di avere tutto da guadagnare. Io mi sentii nel mio regnum caecorum, forte della cultura e del raffinamento acquistato nella comune società, come Teodorico alla testa dei suoi Goti per la conquista d’Italia (non mi si prenda sul serio per aspirante a qualche corona o a turbare l’ordine pubblico con velleità di conquistatore); ma insomma vidi che, quando si insegnasse ai ciechi di approfittare delle risorse, siano pur costose e scarse, che la natura ha celate nella loro infermità, istruendoli inoltre a conquistarsi quello che difetta con quello che hanno di sovrabbondante, aiuti esterni con la esuberanza di riflessione interiore, io mi convinsi che per i ciechi potrà farsi un nobile posto in mezzo a questa odierna società un po’ accecata moralmente dalla facilità dei piaceri e dalla nuova sofistica della critica e del dubbio fatto sistema.

Un’altra analogia mi sembra esistere tra la condizione odierna dei ciechi e quella dei barbari entranti nella civiltà: la resistenza delle tradizionali consuetudini di vita e di pensiero, che forma un blocco di condizioni sfavorevoli e spesso invincibili a una considerazione giusta e a un collocamento utile dei ciechi nella società. Anzi quando uno riesca, tra tanti ostacoli naturali e sociali, a conquistarsi una stima e una posizione, ci si trincera gridandolo una eccezione, perché è più piacevole ammirare che studiare, e per non doversi scomodare a riformare massime e usi.

Da altra parte questa lotta palmo a palmo contro i pregiudizi degli amici non meno che la compassione degli indifferenti che sfuggono persino la vista di questi, per loro, troppo commoventi oggetti di pietà, contribuisce con le condizioni di natura a creare non di rado nei ciechi delle tempre potenti di volontà e d’ingegno e molti più ne creerà quando gli esempi e l’arte di aiutarli con una conveniente educazione si siano divulgati.

Scrive il Ciampoli nella prefazione a un romanzo del Korolenko, non conosciuto quanto merita, Il musicista cieco, che per i ciechi è un godimento l’azione come per gli altri lo spasso, e il pensare come per gli altri il fantasticare. Infatti ho potuto io stesso notare in parecchi ciechi una irrequietezza grande di agire, certamente perché l’assenza di molte distrazioni favorisce la concentrazione, e la riflessione diviene non di rado soverchia per la difficoltà di una estrinsecazione pratica proporzionata. Avviene così per questa somma di circostanze, che ognuno dei piaceri e dei comodi, che gli altri godono inavvertitamente come retaggio, per un cieco abbia forte sapore di conquista; e chi sa non accada che gli ultimi, come nel possesso della civiltà, così pure in quello della felicità, non divengano i primi.

Ecco dunque la miccia dar fuoco alla mina, quando mi vidi, di punto in bianco, portato come campione di una classe e di una idea; ecco il vaticinio del mio magistero, condurre i ciechi ancora derelitti a questo iddio, che a me si è rivelato e che mi ha detto: — Riferisci loro che la cecità non è una sventura, che essa è invece una prova grande, per una grande ricompensa, la visione di una luce migliore. E di’ a gli altri, che cessino di compiangervi, per venire fraternamente in vostro aiuto; non più nel nome soltanto della pietà, ma del vantaggio reciproco, comune -. I sentimenti tradizionali di voti e di beneficenza sono ormai in contrasto e in dissoluzione dinanzi alla scienza e alla vita moderna, coordinatrice di tutte le energie, che trova modo di utilizzare anche i più spregevoli detriti. — Di’ loro che voi non dovete essere un peso, ma una forza; riconoscano che beneficare è alla fine il migliore degli interessi; che la felicità, la quale da tanto tempo si cerca invano, è pur sempre e veramente nella soddisfazione del senso più intimo e umano, la fratellanza e il bene; che, sopra ogni altra estetica di natura o di arte, è questa estetica da coltivarsi con ogni studio in ciascuno, l’estetica del bene e dell’amore, che per evitare equivoci, si chiama carità.

E, per carità, intanto, intendiamoci bene; che io non mi faccia prendere per messia in ritardo; io non mi arrogo davvero nessuna paternità o privativa di queste idee; bisognerebbe che dimenticassi tutto quel poco di storia della filosofia che ho imparato e tutti quei bravi ciechi e amici dei ciechi (nel regnum caecorum si chiamano tiflofili) che in Italia e fuori, scienti o no, cooperano meco. Nulla anzi è più giocondo di questa fede in una comunione vasta e intera nella repubblica delle idee e del bene. Io non sono che una delle tante bocche della verità, la quale per questo appunto è maggiormente accertata, perché trae gli uomini, senza conoscersi, a celebrarla, e dona sempre la veste di novatore a chiunque sinceramente ne rinnovi la testimonianza.

Se io avessi annunziato che la scienza renderà ai ciechi la vista del corpo, si esulterebbe da tutti come di una conquista bastevole da sola a glorificare il secolo; e si farebbe ogni sforzo perché nessuno colpito di cecità rimanesse privato di questo beneficio. Potesse essere così! Noi non vorremmo certo dolerci della cessazione di una calamità per la perdita del piacere di prestarle i nostri conforti, fosse pure rinunciando all’occasione di qualche festa di beneficenza; potesse essere così, ed è sperabile che presto avvenga! Ma, frattanto, poi che nell’attesa della scienza medica, quella della educazione ha trovato un surrogato efficacissimo, forse per essere il miracolo meno esteriore, sarà meno preziosa, meno celebrata, meno divulgata la conquista? Io per me, se fosse possibile una scelta tra il riavere la luce degli occhi e il rinunziare anche a una parte delle mie facoltà mentali, non esiterei a rifiutarla, e molti ciechi sarebbero con me. Io veggo bene quanti abbiano la vista e tocchi a me insegnar loro di usarla; quanti occhi di bue siano in fronti umane, e troppo spesso occhi di farfalle, buoni a null’altro che ad attrarli al lume che li abbrucerà. Non io veggo felici gli altri per la visione del sole, mentre chieggono tanti a me la felicità della mia filosofia. Si vuole ch’io sia una eccezione; in verità io sono una primizia; se l’entusiasmo della novità può allegarsi da una parte come coefficente della riuscita mia, la facilità della via aperta e la forza dell’esempio sta in favore degli altri, e mi pare sia per loro da guadagnare. Bisogna rinunciare coraggiosamente a certi inveterati abiti sentimentali e riformare le idee del pubblico intorno alla cecità, e a norma di questa riforma, portare arditamente una mutazione radicale nell’indirizzo degli istituti e delle scuole per i ciechi. L’istruzione dei ciechi è considerata dai più, e quasi sempre anche dai loro istitutori, come opera di beneficenza; essa è certamente anche ciò, e meritoria senza dubbio; ma giova presentarla rilevantemente come opera di scienza e di utilità pubblica. Mi ricordo ancora quando la mia famiglia mestamente giurava che, sino quando ad essa restasse un pane, questo sarebbe per me; malattie e disgrazie hanno invertite le parti; sono io divenuto, sino da studente matricolino, il suo sostegno e la sua speranza. Se io non fossi stato abilitato al lavoro, non un solo uomo, ma una famiglia di più, sarebbe di peso alla società.

Le statistiche della tiflologia si compiacciono ogni anno di pubblicare nei vari paesi i redditi dei prodotti dei ciechi; sono già parecchi milioni solo in Inghilterra e in Germania; la Francia, prima della recente riforma religiosa, collocava buona parte de’ suoi ciechi istruiti come maestri di cappella e organisti degnamente rimunerati, non come da noi, dove la massima parte delle chiese pagano lire 0,50 per cerimonia, e un organista titolare di parrocchia o santuario non giunge in media a 400 lire l’anno.[3] Le tariffe sono aumentate soltanto in proporzione alla svalutazione della moneta o poco più.] Di questi risultati già si compiacciono gli amici dei ciechi e li decantano al pubblico quali santi guadagni.

Io sento piuttosto la irrisoria e triste esiguità di queste compiacenze e mi guardo bene dal vantare al pubblico i fiorellini di neve come forieri di primavera. La gente va, ascolta, ammira, dice «bene, bravi, poverini!», da un obolo, un sospiro e se ne va a distrarsi, contenta di avere fatto un’opera buona, di aver avuto una buona notizia, che nel mondo vi è pure della bontà, e la pietà conforta anche le più grandi sventure; ma soprattutto contenti di non averne bisogno, di apprezzare quanto valga il tesoro della luce, come all’uscire da una catacomba al sole.

È proprio questo che bisogna evitare; il pubblico non deve essere commosso o meravigliato, ma persuaso, convinto di una verità appariscente, vestita da principio, se occorra, di un po’ di porpora paradossale, perché sembri nuova, bella, grande, portentosa. La forza viva deve essere un urto per vincere la resistenza dell’inerzia; da seguace dei barbari, anche qui voglio l’impeto; l’equilibrio penserà da sé a stabilirsi.

Quando il Marconi inventò il telegrafo senza fili, la cosa fece chiasso nelle masse non tanto per il significato scientifico e vero del fatto, quanto perché le fantasie sognarono che si potesse già abolire il filo e la tassa di una lira per quindici parole. Chi avesse presentata questa mirabile invenzione nei termini rigorosamente pratici e scientifici del momento, chi, tranne una piccola cerchia di competenti, se ne sarebbe compiaciuto?

Io non ingalluzzirò, no davvero, il pubblico, dicendo: — Venite a vedere che cosa fanno i ciechi — sino che non abbia a mostrargli che pochi poveretti che intrecciano spazzole e stuoie, canestri e sporte, lavori da fanciulli e da vecchierelle, retribuiti con una lira per una intera giornata, schiacciati dalla concorrenza delle macchine e dei carcerati; queste non sono opere di menti concentrate e pensanti nel raccoglimento di una perpetua notte, di volontà temprate alla prova di perenni privazioni.

Non suoni biasimo, ma lode alla pietà l’avere cercato piuttosto un conforto, che una utilizzazione di questi infelici; suoni anzi a onore del povero cuore umano, troppo calunniato di egoismo. Sia gridato e scritto contro gli scettici e gli utilitaristi: l’amore, non l’egoismo redime; se io non fossi stato educato dalla carità, né io né i miei compagni caldeggeremmo ora il bene dei ciechi per l’utile comune. Ma non deve spoetizzarci la verità: i santi predicano le crociate e masnadieri vi corrono; gli eroi muoiono per la libertà e i volghi la godono; commoventi e stupende sono le opere che è riuscita a produrre la beneficenza, ma sempre più impotente essa diviene ai bisogni; lo sanno le borse di molti buoni agiati, che questa tassa perseguita non meno del fisco, e pare il pozzo di San Patrizio o la Lupa di Dante,

Che dopo il pasto ha più fame che pria.

La verità è quella che si diceva avanti; l’indirizzo della beneficenza deve essere cambiato, sia nel farla, sia nell’applicarla ; nel farla deve accoppiarsi al controllo, dominata o almeno sposata a un concetto di interesse personale; nell’applicarsi deve ubbidire più alla testa che al cuore, mirando più a sanare che a palliare, seguendo larghi piani di prevenzione più che comodi espedienti di sovvenzione.

Chi lancerà la pietra contro questo peccato dell’amore? Per altro le ferree leggi delle conseguenze inesorabilmente portano il loro frutto. Gli Istituti dei ciechi di oggi sono monumenti di carità e spesso vere e proprie case paterne. I quartieri sono comodi e non di rado più che decenti; il nuovo Istituto per i ciechi di Milano fu detto a ragione dalla principessa Letizia di Savoia mia reggia; sono ampie sale, senza dislivelli, con larghi corridoi e cortili spianati; ogni refrigerio del freddo e del caldo si cerca dare a questi poverini: servi che apprestino tagliate le vivande, puliti gli indumenti, pronto il braccio a passeggio per le vie; guide ingegnose per la scrittura e per i lavori manuali.

All’Istituto di Amsterdam, salvo errore, si sono persino introdotti lunghi fili di ferro con maniglie scorrevoli per l’esercizio della corsa. Vorrei poter dilungarmi a descrivere soltanto l’emporio di congegni per guidare la mano nella scrittura; lo spreco di artifizi, di denari, di pazienza per risparmiare ai ciechi un poco di esercizio coraggioso della mano a fare aste e uncini per giungere a scrivere bravamente senza catenacci come tutti gli altri. Parlo anche qui per esperienza personale mia e di altri, così da osare di dettare legge pure sapendo la sfiducia di quasi tutti gli educatori; ma è un errore di principio, non di persone; essi dovrebbero distruggere tutta la loro esperienza, farsi da capo e prima di tutto potere essere persuasi.

Ci vuole dunque pazienza e non amareggiare la loro età e benemerenza spesso grandissima per quel bene che i tempi e non la volontà hanno tolto loro di fare, mentre essi stessi hanno preparata la scienza dei venturi. Tra i lavori manuali coerentemente si cercano i più facili e lievi; s’inculcano pensieri di rassegnazione e di umiltà, prevenendo aspirazioni anche legittime di indipendenza e di vita piena; in questi casi anche la severità pare qualche volta necessaria; e il centro, il perno della istruzione dei ciechi è la musica.

La musica, la dolce, la soave, la molle musica doveva essere naturalmente, secondo la più squisita carità, il balsamo miracoloso dei ciechi; e non si può negare che molto spesso non sia. Ritenuta la loro condizione irreparabile sventura, nulla di meglio che trarli fuori del mondo per i sentieri della fantasia e del sogno. Ma dopo quelle ore di gaudio e di oblio, potete voi pensare che questi disgraziati non soffriranno tanto più amara la realtà di questa terra, dove non possono né procacciarsi sufficientemente il necessario e neppure ingannare la fame o stordire le lunghe insonnie del cervello e dei muscoli non stanchi con andare a spasso? Mai tanto i bisogni fisici e le necessità della vita si fanno incresciose, come quando le abbiamo dimenticate in un’ora beata di sogno o di arte.

Il balsamo è completo; nessun aroma vi doveva mancare; uno degli insegnamenti più sviluppati ordinariamente nei nostri istituti è quello della letteratura: rudimenti dei vari generi di prosa e di poesia, elementi di metrica non di rado, letture di romanzi e di poemi. Incredibile è la passione che prendono i ciechi alla poesia, e molti tra essi compongono versi; nelle minuscole biblioteche apposite in sistemi rilevati a caratteri Braille, la massima parte, per non dire quasi il totale, dei libri è di amena e poetica letteratura o di devozione. Questa pure non doveva mancare, anzi è il complemento del programma; nulla, come la devozione, calma lo spirito e lo induce alla rassegnazione. Ma, ahimè, poi che non è possibile dare per tutte le ventiquattr’ore di tutti i giorni della vita l’oppio, è meglio toglierlo interamente ovvero lasciarlo in quella proporzione che sia di tonico, di ricreativo, di eccitamento a portare il loro fardello doppiamente pesante.

Con questa preparazione, giunti al confine dell’età prescritta, compiuto il corso, come si dice, di educazione, con queste armi per la lotta della vita i ciechi escono dagli istituti. Passano dalle sale alle stanzucce, il più delle volte stamberghe, della famiglia o del loro più che modesto lavoro. Gran parte tornano al paesello di campagna, suonano l’organo in chiesa la festa e passano oziando tristamente i giorni feriali tra povera gente tra cui non sono più avvezzi a stare, che si era spesso lusingata di vederli tornare pezzi grossi dopo otto o dieci anni di studio in città, dopo averli sentiti leggere e discorrere così bene, e che li vede ora languire nell’inerzia e nella miseria, tornati a carico dei vecchi genitori o bisognosi dell’elemosina, che non sanno più francamente dimandare.

Le autorità del paese, che spesero per il loro mantenimento alle scuole e trovano troppo scarso il frutto del loro sacrificio, restano svogliate, scontente, e li abbandonano del tutto. La posta costa, per scrivere agli amici o leggere i libri delle biblioteche; e poi chi può avere voglia di ciò quando si mangia male e non si è capiti da chi sta presso? I ciechi delle città, stanno un po’ meglio; ma gli stimoli sono di più. Non di rado vi sono laboratori, dove guadagnano da una lira a una e cinquanta per giorno di lavoro; io spendo di più solo per pagarmi gli occhi di una guida o di un lettore.

Bisogna rinunziare fatalmente alla famiglia; il celibato imposto, dopo tanti bei sogni della prima giovinezza, a uno specialmente, che più degli altri ha bisogno di una fida compagnia, è un supplizio che non ha altro scampo che la corruzione o un progressivo intorpidimento. Spesso tali ciechi sono assunti come insegnanti negli Istituti dei loro confratelli, un po’ per carità, un po’ perché si possono pagare esiguamente. Dopo venticinque anni di insegnamento il mio maestro è arrivato allo stipendio di 960 lire annue ed è invidiabile alla più parte dei maestri ciechi italiani. In tal modo si vegeta, non si vive, e chi ci perde sono i nuovi allievi. I consigli di amministrazione dicono: I ciechi debbono contentarsi, debbono pensare che quello che si sottrae a loro è devoluto per mantenere in educazione un cieco di più; essi partono dal solito principio e l’Istituto di educazione diventa una pia casa di ricovero temporaneo per fare degli uomini doppiamente sventurati.

Come mi duole dire queste cose che sembrano essere un rimprovero a persone di sante intenzioni e di eroiche privazioni, che hanno dedicato ai ciechi tutte se stesse! Ma non è colpa loro, ripeto, se i precursori debbono essere martiri; questo è fatale, ma quelli che godranno dei benefici della vittoria e della pace renderanno giustizia ai loro nomi. In fondo i ciechi anche più scontenti, chiusi nel loro raccoglimento, sceverano facilmente le intenzioni dai fatti, e se svaniscono i sogni, lasciano un profumo di gentilezza e di idealità, che, a nominarlo, si chiama riconoscenza.

La carità diede ai ciechi la musica, la scienza deve dare la filosofia; la carità diede loro la rassegnazione, la scienza deve dare l’ardimento.

I ciechi hanno numerosi compensi fisici, intellettuali e morali che l’educazione deve sviluppare per il bene loro e di tutta la società, alla quale essi daranno un contributo prezioso e come uomini laboriosi e come ciechi. La carità cercò di fare loro dimenticare la imperfezione coi suoi pietosi conforti; la scienza deve darne loro la massima coscienza, col cimentarli con la sua scorta a tutte le difficoltà. Molte ne vinceranno, altre ne tenteranno invano; ma sarà come averle vinte l’acquistare la coscienza dell’impossibilità, e conseguentemente l’industria di sopperirvi per altre vie. La sentenza virgiliana deve essere il nostro motto:

una salus victis nullam sperare salutem;

il coraggio della disperazione è la nostra forza e la nostra potenza. La condizione nostra nella vita ordinaria è come quella di una gente dispersa in nazione non sua; dobbiamo farci conoscere, apprezzare, amare, accettare, ma non rinnegando le buone qualità originarie, per imitare gli altri in quello che non è della nostra natura, bensì per le nostre prerogative, così che l’utile scambievole profitti di questa diversità.

Grandi sono già i mezzi che la beneficenza ha raccolti per questa impresa, se si considerino come monumenti di pura carità; vi sono in Italia ventisei Istituti, i quali hanno in corso di educazione circa un migliaio di ciechi e un capitale complessivo di oltre venti milioni.

Per questi ciechi più o meno istruiti, che ogni anno accrescono di circa un centinaio gli infelici che entrano nella lotta per guadagnarsi la vita con armi così ineguali, così insufficienti, si è costituita una società di patronato, la quale, sebbene sia fondata da quindici anni, eretta in ente morale dal 20 ottobre 1901 e porti il nome augusto della regina madre, Società nazionale Margherita di patronato per i ciechi, con sette, e tra breve nove, sezioni autonome in varie provincie, sebbene sia diretta da un uomo valoroso ed esemplare, il Prof. Pietro Landriani, che, divenuto cieco a trent’anni, non si abbandonò allo sconforto, ma, lasciando le scienze fisiche alle quali si era dedicato, si applicò a questa scienza (egli veramente la intende così) della filantropia, con tutto questo non ha un capitale superiore a 40 mila lire e conta appena duemiladuecento soci, duecento dei quali sono ciechi.

Se questi dati sono gloriosi per la beneficenza (il Governo non spende per i ciechi che lire 30 mila annue), io mi domando come mai siano ancora tanto inferiori al bisogno, mentre non vi è sventura che incontri più largamente l’interesse del pubblico e un vero slancio di generosità ogni qualvolta ne sia fatto sentire l’appello.

La verità è quella che ho già esposta, che il pubblico non ha ancora capito che cosa siano questi Istituti e questo patronato, in che cosa differiscano dai tradizionali ricoveri e congregazioni di carità. Le tre lire annue che gli si dimandano per quota sociale, gli sembrano meglio spese a un soldo per volta, quando incontri dei ciechi mendicanti per le strade. Il pubblico sente che il patronato e gli Istituti sono opere pie; egli è divenuto scettico oramai della pietà ufficiale e preferisce esercitarla a modo suo man mano che qualche oggetto gliela faccia sentire.

Diciamo al pubblico così: date un contributo per liberarvi dell’aggravio personale e sociale e del compassionevole spettacolo dei ciechi; sono migliaia di braccia e di menti che accresceremo al lavoro e alla ricchezza nazionale, sono migliaia di disgraziati, che restituiremo alla gioia. Diciamo al pubblico che i ciechi non sono sventurati, poi che la luce dell’anima può supplire a quella del corpo, che le scuole di ciechi non sono pie case di consolazione, ma gioconde palestre di attività e di fortezza, dove i reietti della natura sono rigenerati dalla scienza e dalla bontà umana; che vada a visitare queste scuole e questi istituti rinnovati, non per attristarsi, ma esaltarsi di giubilo ed esclamare: Sì, che è ancora vero che l’uomo è il re della natura, poi che anche dalle più crudeli sventure egli può trarre, come da succhi amari, medicine e vigorosi liquori. [4] V. la mia Nota al capitolo «Ragazzi Ciechi» nel Cuore del De Amicis.]

Non lontano deve essere il giorno in cui la scienza troverà modo che a nessuno più non rida la luce del sole; ma intanto si affretti questo giorno col trar fuori tutti gli ammaestramenti, tutte le esperienze, tutte le segrete risorse di questa sventura; essa ne nasconde veramente molte, io lo dico, perché le ho già scorte. Quando avremo incatenata la sventura e spremuto da

essa tutto il bene che ci aveva rapito, essa morrà da sé di consunzione, e un fanciullo basterà a seppellirne il carcame.

Potrei enumerare professori di lettere e di scienze, giornalisti, ingegneri, direttori di officine, commercianti, che pervenuti con nobile ardimento senza la vista o colpiti da questa sciagura in impiego hanno continuato con lode il loro ufficio; ma sono ancora eccezioni, perché la maggior parte si ostina a crederli tali, e in generale il pregiudizio stesso abbatte quasi tutti, quando siano colpiti da questo terribile colpo.

Alla disperazione propria, si aggiunge quella dei parenti e degli amici; un uomo divenuto cieco si piange più che se morisse. La maggiore sventura per lui è proprio questa; nulla può abbattere una volontà forte e un ingegno ardito. Quando si siano fatte meno rare queste eccezioni, e si veggano i ciechi dall’infanzia abilitarsi a quasi tutte le professioni, anche i divenuti ciechi troveranno la forza e l’arte di adattamento per continuare nei loro lavori.

38.400 sono i ciechi in Italia; preleviamo i vecchi e gli inabili, facciamone 20 mila; vittime del buio per i quali la concentrazione è un’abitudine e il lavorare la miglior distrazione; ventimila lavoratori di tal genere, quanti milioni all’anno di più?!? [5] Da un calcolo realistico il numero dei ciechi utilizzabili si riduce a molto meno della metà, sicché il problema del loro collocamento resta assai semplificato e la questione di quantità cede in gran parte il posto a quella di qualità. Merita particolare lode di questo raddrizzamento della propaganda per avere insistito ai fini pratici sul numero minore, invece di sbandierare una cifra impressionante, il compianto ottimo amico dei ciechi Oreste Poggiolini.]