La percezione dello spazio nei ciechi. La percezione acustica degli ambienti.

di Enrico Ceppi
Nel precedente articolo di questa serie che vuol essere dedicata specialmente all’analisi delle percezioni dei ciechi e, sia detto subito, costituisce un breve panorama di osservazioni, di studi, di opinioni e non un esauriente esame scientifico del fatto psicologico in sé, abbiamo trattato dell’importanza della percezione tattile nel sorgere e nello strutturarsi delle immagini spaziali presso i ciechi. La mia preoccupazione fu di mettere sufficientemente in risalto il contributo dato dal tatto alla percezione spaziale, e come la percezione del cieco possa dirsi spaziale, appunto in quanto fondata su una sintesi immediata, proveniente dall’esplorazione tattile degli oggetti e presentante i fenomeni psicologici della strutturazione e dell’organizzazione.
Parrebbe quindi che la percezione tattile, originando la spazialità delle immagini, sia di per sé sufficiente a garantire un’immaginazione valida presso il non vedente, sia, per così dire, la fonte diretta e immediata del suo contatto con la realtà. Quando si parla di contatto con la realtà (e ciò per quanto concerne il linguaggio psicologico senza pretese di inoltrarci nelle vexatae questiones della filosofia) si intende di solito riferirci alla sensazione in atto, a quel contatto più esterno e mediato dai sensi; si dovrebbe invece estendere il concetto di contatto con la realtà al permanere costante dell’individuo immerso nel mondo reale, non solo tramite le sensazioni specifiche, ma anche tramite la rappresentazione, il ricordo e, in generale, l’intero mondo psichico che si pone in movimento, si stimola, agisce e reagisce, spesso in sintonia con le sensazioni, spesso per stimolazione pura e semplice e, più spesso ancora, per un processo proprio e per una propria esigenza.
Se proprio volessimo spingere l’analisi dell’espressione di realtà alle conseguenze più profonde, ci troveremmo nell’impossibilità di distinguere il limite della realtà stessa, dovendo, nella realtà e quindi nel concetto di contratto con essa, includere anche il nostro corpo.
La distinzione, per verità alquanto empirica operata tra percezioni propriocettive ed extracettive, non può essere sufficiente a discriminare un limite assoluto, nella relazione tra esterno e interno, tra gli oggetti e la rappresentazione soggettiva, incostante degli oggetti stessi.
Il contatto della realtà, pertanto, che proviene dall’esplorazione tattile delle cose, direi, dall’esperienza percettiva tattile, assunta come solo ed unico criterio di costituzione delle immagini, conduce alla costituzione di un mondo psichico estremamente unilaterale ed uniforme. Non procedo, si badi, in questa analisi, spinto soltanto dalla forza di deduzioni teoriche tratte da premesse di studio; ho già più volte ripetuto che intendo mantenere queste osservazioni nel limite dell’esperienza per dare loro un certo valore di attendibilità. Così, parlando del mondo tattile delle immagini, non opero un’astrazione procedendo dal mondo tattiloacustico del privo della vista, bensì mi riferisco al mondo esclusivamente tattile del cieco-sordo; mondo per certi aspetti valido, ma privo di quella dinamicità che al mondo del cieco proviene dalla partecipazione esplorativa della sensazione acustica.
Si tratta ora di stabilire la natura di questa maggiore aderenza del cieco alla realtà, di questo contatto che vive su immagini più immediate, più dinamiche, più organizzate che non siano quelle del cieco-sordo.
La differenza tra i due modi psicologici di strutturarsi dell’immaginazione non può, evidentemente, essere soltanto quantitativa, poiché in tal caso la differenza non sarebbe che una questione di grado; mentre noi sosteniamo che sia soprattutto una questione di qualità e di natura. Se si trattasse di una pura differenza di grado, noi saremmo indotti automaticamente a stabilire una scala decrescente di intensità, di vastità e di quantità immaginativa, che parta dal mondo di chi possiede intatto il patrimonio naturale dei sensi e vada degradando successivamente con lo scomparire di uno o più sensi fondamentali: la vista, l’udito ecc. Tre mondi distinguibili tra loro soltanto per una differenza quantitativa delle immagini e delle rappresentazioni. La conclusione è tale da lasciar perplessi, e da indurre a riproporre il problema del contatto con la realtà in termini filosofici, oltre che psicologici. Infatti tale conclusione potrebbe indurre a ritenere che lo spirito sia soltanto un recipiente per il quale possa valere un criterio quantitativo di misurazione.
Mi si consenta di indugiare ancora brevemente sul confronto tra il mondo di chi vede, e il mondo di chi non vede, e, soprattutto, tra questi due mondi psichici e quello di chi non vede e non sente. La differenza tra i primi due può essere ridotta su un piano percettivo ad una differenza di grado; per quanto riguarda il terzo mondo psichico, invece, la differenza, sia pure limitata al settore percettivo, non è soltanto di grado, ma anche di qualità. Nel primo caso, pur togliendo la cecità un vasto settore di esplorazione percettiva, permane valida una strutturazione ed un’organizzazione immediata delle immagini, sostenuta da uno sfondo permanente e costante; nel secondo caso invece l’immagine strutturata non trova un’organizzazione immediata, spontanea, e può organizzarsi soltanto in un momento superiore dell’operazione conoscitiva, e cioè nel momento logico. Un’organizzazione, come si vede, che non richiede, non ha per natura uno sfondo costante e continuo operante sul soggetto e in cui il soggetto inquadri la propria coscienza. Il sordo-cieco trasporta l’organizzazione delle immagini al livello del pensiero, mediante un atto di razionalità vera e propria e ciò implica, almeno, un forte ritardo nella sua evoluzione psichica, determinando il sorgere di quella differenza di qualità, accennata prima.
Ho creduto opportuno indugiare in modo particolare sull’analisi del contributo dell’udito al mondo percettivo del cieco, per stabilirne, mediante un confronto, la portata, per indicarne anche la direzione e il significato. Resta anche qui valido il principio psicologico già più volte richiamato che l’atto percettivo, per essere valido, significativo, non può scindersi in elementi isolati; così, soltanto per comodità di studio, noi distinguiamo nell’atto percettivo del non vedente il contenuto tattile e quello acustico; di fatto, l’atto si organizza come una totalità, prendendo valore e significato soprattutto dal suo inquadramento in una mente e in una personalità, arricchitesi attraverso queste forme di contatto con il mondo esterno.
Lo stesso sforzo muscolare, che potrebbe essere considerato come l’essenza originaria e primitiva dell’esplorazione tattile, si inserisce, prende significato in una sintesi più vasta operata dall’udito; dal sentirsi del soggetto privo della vista inserito in un mondo di suoni più o meno vicini, rapportati quindi sempre in termini di spazialità.
Le pareti di una stanza, un qualsiasi oggetto voluminoso che alteri l’acusticità di un ambiente, vengono dal cieco intesi simultaneamente sotto la forma di sensazioni tattili e acustiche. La parte tattile, direi, di una siffatta percezione si rileva in modo rappresentativo, prendendo valore dall’immediatezza della parte acustica. Chi non vede, avverte l’ostacolo per una sensazione di chiuso, di limitato acusticamente, e la distanza si conforma in forza di un’esperienza muscolare. Analogo processo si è visto operarsi per quanto concerne l’esperienza spaziale della vista.
Il discorso da me ora svolto in termini psicologici, trova una sola traduzione quotidiana nel lavoro degli educatori dei ciechi, i quali assistono, giorno per giorno, all’evolversi della percezione dei piccoli non vedenti e notano come il progresso nel campo della percezione tattile comporti un perfezionamento nell’orientamento ambientale del fanciullo stesso. In ultima analisi si tratta di un processo di evoluzione del tutto analogo a quello del bambino normale, fatte, s’intende, le dovute differenze di grado e ammesso, senza possibilità di equivoci, il fatto che presso i fanciulli ciechi un siffatto processo avviene in modo faticoso, spesso non spontaneamente, richiedendo il suo determinarsi uno sforzo educativo dall’esterno. Per questo motivo, l’autoeducazione per i fanciulli ciechi va intesa in modo diverso e con molte riserve, poiché se di autoeducazione è possibile parlare, essa vuol essere soltanto rappresentata come una collaborazione dell’educando allo sforzo educativo, e non come una diretta evoluzione spontanea sotto il controllo dell’educatore e la spinta dell’ambiente. Differenza di grado, dunque, sia nel processo formativo dell’esperienza percettiva, sia nella costituzione del patrimonio immaginativo. La spontaneità indurrebbe il fanciullo cieco a scindere automaticamente gli elementi tattili da quelli acustici, ponendo una barriera insormontabile tra i due ordini di percezioni.
Un uccellino canta su un albero nel giardino, il canto entra dalla finestra aperta e attira l’attenzione del fanciullo cieco: quale meccanismo immaginativo verrà posto in movimento? Se il fanciullo cieco non ha seguito un processo educativo tendente alla sintesi e alla concretezza, limiterà la propria attività psicologica, stimolata dal fatto esterno, alla pura audizione del suono e alla sua localizzazione direzionale; spontaneamente, non può fare di più, e di più non si può trovare nella pura audizione priva di un contenuto proveniente dall’esperienza tattile.
Se invece soccorre un’esperienza precedente, consolidata dall’esplorazione tattile, il canto dell’uccellino richiamerà una serie di immagini reali, dalla figura dell’uccellino, alla figura dell’albero; dall’immagine del giardino a quella della finestra aperta. E, si badi, non si tratta di immagini posticce, stereotipate, l’immediatezza dell’audizione costituisce una fonte di originalità e di freschezza alle stesse immagini rappresentate.
Si opera così una feconda e spontanea sintesi tra la sensazione e la rappresentazione, stimolata dalla sensazione; una sintesi che non si esaurisce, volta a volta, nel singolo fatto percettivo (e qui risiede il fatto centrale della collaborazione tra il tatto e l’udito) ma si svilupperà in un fluire incessante delle sensazioni e delle immagini, sorgerà un mondo attivo, una totalità percettiva che dà a chi non vede la consapevolezza costante e reale del mondo che lo circonda.
Come si organizza un siffatto mondo percettivo fondato sul tatto e sull’udito? Le leggi dell’ottica corrispondono a quella dell’acustica e l’analogia già rilevata dal Romagnoli nel suo articolo sull’audizione delle forme induce all’analogia nella costituzione del mondo percettivo di chi non vede col mondo percettivo di chi vede. Così sarà possibile ritrovare, nel mondo percettivo del non vedente, una differenziazione di piani e di sfondi, un alternarsi di immagini e un susseguirsi di figure e sfondi, selezionati dagli interessi e dalle reazioni sentimentali del soggetto.
L’ampiezza del mondo percettivo acustico, infine, pur non essendo paragonabile a quella del mondo visivo, è comunque tale da non esaurire la spinta e la richiesta affettiva del soggetto verso il mondo che lo circonda. Questa, a mio avviso, potrebbe essere la legge psicologica fondamentale che garantisce in pieno la validità, ai fini dello sviluppo del pensiero e della personalità, del mondo percettivo di chi non vede.
Mentre il fanciullo non vedente siede e lavora nella sua aula di studio, avverte acusticamente e rappresenta, in base all’esperienza tattilomotoria, le pareti e l’insieme della sua stanza, la presenza degli altri fanciulli nella loro disposizione e nella loro sommaria conformazione fisica. In più, oltre le pareti, vive un mondo di suoni, degradanti verso l’infinito che non permette di isolare l’immagine della stanza entro gli angusti limiti di una realtà scissa dal resto dell’ambiente.
Al bambino che vede, e in genere al soggetto vedente, la realtà che si può estendere oltre il chiuso ambiente di una stanza è assicurata dalla luce che fiotta dalla finestra, dal cielo azzurro che si inquadra in essa, da ciò che oltre quella breve apertura può essere esplorabile dall’occhio sempre desideroso di ampliare il proprio campo percettivo; non altrimenti avviene per chi non vede. L’occhio del vedente, l’udito e l’immaginazione di chi non vede, sono ugualmente mossi da un’unica e identica necessità che è peculiare del soggetto uomo, che costituisce la sua essenza fondamentale: il bisogno di conoscere, di alimentare con sempre nuove immagini il proprio mondo psichico ed il proprio pensiero.
Dalla finestra aperta, per il fanciullo cieco fluiscono suoni che sono il simbolo di immagini che suscitano spontaneamente le immagini, perché ad esse strettamente fusi dall’esperienza; e i suoni che da quella finestra spalancata ravvivano l’esplorazione percettiva di chi non vede gli testimoniano in modo concreto l’esistenza di un mondo esterno reale, un mondo che il fanciullo cieco conosce nelle sue forme fondamentali e necessarie.